Google+ Bolgeri - il Gruppo Tolkieniano di Milano: Alberto Carli e Federico Beltrami, Il sotterraneo come luogo della fiaba

sabato, maggio 19, 2007

Alberto Carli e Federico Beltrami, Il sotterraneo come luogo della fiaba

Procediamo con la pubblicazione degli atti del festival. Quest'oggi tocca al testo dell'intervento di Federico Beltrami (Fram) e Alberto Carli dell'università Cattolica di Milano, un dibattito sul sotterraneo come luogo della fiaba. L'intervento ha trattato «del rapporto mitico e magico dell’uomo con il mondo sottoterra, dall'origine dei prinicali aspetti del sotterraneo presso la narrativa popolare, descrivendo come il sotterraneo non abbia mai una singola valenza (positiva o negativa), ma spazi tra valenze positive e negative, contribuendo a creare dei legami mitici tra queste, alla letteratura ottocentesca e novecentesca, nell’ambito del rapporto tra scienza e letteratura (sia colta che popolare), nei collegamenti con la leggenda metropolitana.»

Siamo ancora in attesa delle registrazioni audio: seguiranno aggiornamenti.
Intanto ringraziamo gli autori che ci hanno consentito la pubblicazione dei loro interessanti appunti. In alcune parti, il testo è stato ediato aggiungendo link e immagini.

Luoghi ombrosi, luoghi umidi, luoghi misteriosi... i luoghi ctoni
Federico Beltrami

Cosa si intende con luogo ctonio? Il luogo ctonio, nella fiaba e nel mito è un luogo che si trova sottoterra, può essere l’Ade, l’Inferno, può essere l’antro del drago, ma anche un luogo di indicibile bellezza, dove il protagonista (o la protagonista) della fiaba potrà trovare ristoro e possibilità di ascesa sociale. Quell’ascesa che è spesso base della trama delle fiabe.

Visita guidata agli inferni possibili
(ma anche in qualche posto più accogliente)


Va inizialmente precisato che qui non discorrerò dei luoghi dell’oltretomba nell’ottica religiosa: troppo lungo sarebbe discorrere del destino dell’uomo dopo la morte. Ogni religione ha la sua visione particolare della cosa; per alcune religioni non esiste nemmeno un mondo ultramondano: induismo e buddismo, per esempio, adottando l’idea della reincarnazione e del Karma, possono farne completamente a meno.
Religioni a noi più vicine, come quella dell’antico Egitto, e le tre grandi religioni monoteiste odierne prevedono un giudizio divino e due regni destinati uno a chi in vita fu buono ed uno a chi in vita si abbandonò al vizio (con un regno intermedio nel caso del cattolicesimo). Il regno destinato ai malvagi è dunque un luogo di punizione. Esso si trova sempre sottoterra: o vi si levano fiamme immense, o vi regna il gelo ed il buio.
Ma non tutte le religioni prevedono un doppio regno, ad esempio la religione degli antichi celti prevedeva la sola isola dei beati. Essa, chiamata in vari modi nelle diverse province da loro abitate (Annwn in Galles, Avalon in Irlanda, ecc.), era luogo senza morte e senza inverno, regno degli elfi e delle fate, luogo di luce, colori, musica e piaceri sensuali.
Di contro, i cugini dei celti, i greci ed i latini (si tratta infatti di tre popolazioni indoeuropee), nelle loro prime età immaginavano un aldilà completamente diverso: esso era luogo delle tenebre, ma non era un vero e proprio luogo di punizione, esso era piuttosto il luogo della desolazione e della disperazione, dove gli uomini, diventavano l’ombra di se stessi e si consumavano nel desiderio della vita terrena, diventando esseri che di umano avevano ben poco. Essi, infatti erano spesso assetati di sangue, si veda ad esempio la discesa di Odisseo nel regno dei morti, e la voracità con cui i morti devono il sangue delle vittime che Odisseo ha offerto loro.
Successivamente (verso il V - IV sec. a.C.) sotto la spinta di correnti misteriche come l’Orfismo, ma forse anche dovutamente a contaminazioni esterne (orientali e celtiche) la visione greca mutò, prevedendo, oltre all’Ade che prende sempre più una connotazione punitiva, un’isola felice, circondata dalle acque del fiume Lete, acque che donano l’oblio (e quindi la felicità) a coloro che ne bevono. Si tratta dei Campi Elisi.
Un simile sviluppo delle concezioni riguardo il regno dei morti si ebbe secoli dopo presso i popoli nordici, ove solo i migliori guerrieri erano ammessi alla Valhalla.
Per discendere nell’aldilà, presso le popolazioni che ho nominato, ci si doveva avventurare in grotte e caverne (i).
Ma la discesa attraverso grotte e gallerie, porte e pozzi non è contenuta solo nei miti classici, ma si è diffusa anche in moltissime fiabe e leggende europee. In questi racconti popolari il mondo sotterraneo, che dopo un’ardua discesa si svela al protagonista, prende spunto oltre che dall’aldilà cristiano un po’ da tutti gli aldilà delle precedenti tradizioni pagane antiche.

Vediamo di fare alcuni esempi di luoghi ctoni tratti da alcune delle più comuni fiabe italiane (con qualche intrusione europea), partendo dai più infernali per giungere a quelli più fatati.

Immagine a destra:
Ted Nasmith, Under the spell of the barrow wight.

Inferno:
  • Nelle fiabe popolari è presente spesso l’inferno cristiano, esso è luogo di alte fiamme e punizioni per i dannati. Ma l’elemento comico si intrufola spessissimo in questi inferni popolari, presentandoci diavoli stupidi, intenti a gozzovigliare e messi nel sacco dai furbi protagonisti delle storie scesi lì per caso, avventura o incarico. In Sardegna ad esempio S. Antonio si incarica di rubare il fuoco all’Inferno per farne dono agli uomini. Riuscirà nel suo intento liberando un maialino nell’inferno che creerà tale scompiglio da permettergli di agire indisturbato e ritornare sulla terra col fuoco conservato in un bastone di frenula, essenza che richiama alcuni miti greci sull’aldilà (ii) (lo stesso tipo di fiaba viene raccontato in altre regioni d’Italia, non necessariamente col Santo come protagonista) (iii). In un altro tipo di fiaba un fabbro che ha vissuto una vita combinandone di cotte e di crude finisce alla sua morte all’inferno. Ma anche qui ne combina di ogni (picchia i diavoli, vince il diavolo alle carte ecc.) tanto che all’inferno non ce lo vogliono e S. Pietro, suo malgrado deve accettarlo in paradiso (iv).
  • Spesso nel tipo di fiaba “Barbablù” il marito-orco che permette alla giovane protagonista della fiaba di vivere nel suo palazzo e aprire qualunque porta eccetto una porta proibita è il diavolo in persona, e dietro quella porta vi è proprio l’inferno. Ma anche nelle altre versioni della fiaba (che solitamente collocano la porta o l’armadio proibiti in cantina) il luogo proibito (stanza o armadio che sia), con il suo macabro mucchio di corpi di mogli morte, il sangue scuro e rappreso, l’odore di chiuso e di morte, non possono che assomigliare ad un cupo regno dell’oltretomba (v).
  • Diffusissime sono poi le fiabe dove un ragazzo o una ragazza troveranno l’amore sottoterra. Ma a seconda che il protagonista sia maschio o femmina la storia prenderà risvolti differenti. Nel caso che la protagonista sia una ragazza si tratta sempre di una povera contadina, mandata dai genitori a raccogliere ortaggi in campagna. Sotto un cavolo (ma nelle varie versioni non mancano prezzemolo, finocchio e ogni sorta di ortaggio) (vi) la ragazza trova un buco e vi cade dentro. Sottoterra è scavato un palazzo. Qui, costretto da un incantesimo di una fata malvagia, dimora un principe di cui la ragazza si innamorerà. Ma certamente non può andare tutto bene, e la ragazza verrà scacciata (solitamente perché è entrata nella stanza proibita, o perché è rimasta incinta del principe). Ma questo allontanamento le gioverà, dal momento che troverà ospitalità presso il palazzo del re padre del principe. Mediante qualche segno di riconoscimento la Regina madre scoprirà che la giovane è in realtà sua nuora e che il bambino venuto alla luce il suo nipotino. Grazie a questa nascita il principe sarà liberato dall’incantesimo e potrà ricongiungersi alla sua nuova e vecchia famiglia.
  • Nel caso il protagonista della fiaba sia un ragazzo, all’inizio della storia egli parte coi due fratelli maggiori in cerca di fortuna. La troverà in palazzo che si estende in fondo a un pozzo uccidendo un orco, trovando un tesoro ed una sventurata principessa tenuta lì prigioniera (che subito gli darà un pegno del suo amore). I fratelli, con una corda e una cesta, tireranno su prima il tesoro, poi la principessa, ma al momento di tirar su il fratello minore che aveva compiuto l’impresa eroica complotteranno di tirarlo su fino a metà del pozzo e poi di farlo cadere giù per non dover spartire il bottino. Ma il ragazzo, furbo o ben consigliato da un’aiutante, metterà nella cesta una pietra al proprio posto salvandosi la vita. Le peripezie per uscire dal mondo sotterraneo e per riconquistare la principessa prevedono il volo a bordo di un’aquila (o di un drago), la caduta (o il lancio) da questo durante il volo, la ricerca del paese della principessa, l’aiuto di un cagnolino fatato per poter entrare a corte e rivelarsi (tramite il pegno d’amore) come vero salvatore della figlia del re (vii).
  • Sottoterra si possono trovare immensi tesori. A volte si può scoprire l’apertura della grotta che li custodisce scalciando una pietra sul greto di un fiume o nuovamente sradicando un ortaggio. Oppure un pover’uomo può fortuitamente scoprire l’accesso alla caverna dove i ladri nascondono i frutti delle loro ruberie, è il caso delle fiabe tipo Apriti Sesamo!. Ma i luoghi sotterranei colmi di ricchezza sono anche le caverne e le miniere scavate dai nani, custodi dei segreti della terra e abitatori di un mondo oscuro che molti studiosi mettono in relazione con l’aldilà. Su questa relazione torneremo più avanti.
  • Un tesoro del sottosuolo può essere l’acqua. Accadde a Siena, dove per centinaia di anni (le prime notizie sulle ricerche si hanno attorno al 1100 e si concludono col 1400) è stato cercato un presunto fiume sotterraneo, la Diana, con scavo di pozzi e sovvenzioni alle ricerche degli astrologi. Una ricerca tanto tenace ed infruttuosa da procurarsi lo sberleffo di Dante (Purgatorio [XIII: 151-154]) (viii).
  • Siena inoltre con il suo acquedotto medioevale costituito dai famosi Bottini è ricca di leggende riguardanti gli esseri del sottosuolo, gli Omiccioli, sorta di nani comici e i Fuggisoli, lampi improvvisi nell’oscurità dei cunicoli dei bottini. (ix)
  • Il sottosuolo può essere un luogo ove incontrare esseri fatati che elargiranno doni o punizioni a seconda dell’animo e del comportamento di chi li incontra. In un tipo di fiaba assai diffuso una ragazza viene mandata dalla sua cattiva matrigna a filare col fuso presso un pozzo o presso un fiume. Il fuso cade nel pozzo o nel fiume, la ragazza scende nel pozzo o sul greto del fiume, dove trova l’ingresso di una caverna. Qui si troverà in un ambiente magnifico abitato dalle fate o dalle anguane, che le permetteranno prendere un fuso scegliendolo fra i loro, tutti fusi d’oro, argento e pietre preziose. La ragazza però ne trova uno di legno e sceglie quello. Verrà premiata per la sua modestia con una grande bellezza e il dono di far cadere una moneta d’oro dalla bocca ogni volta che parla. Vedendo tornare a casa la ragazza con tali fortune la matrigna si fa raccontare tutto e manda la propria figlia (prepotente, indolente e anche molto sciocca) a perdere il fuso nello stesso luogo. La figlia però sceglierà un fuso tra i più ricchi che le verranno offerti, e quindi sarà ricompensata da un’orrenda bruttezza, una coda d’asino che le penzola dalla fronte e la caduta di escrementi dalla bocca ogni volta che parla (x).
  • I tumuli irlandesi, chiamati sidh, sono i luoghi abitati dalle fate, nonché dagli antichi padroni dell’isola, i Tuatha De Danaan, costretti poi a ritirarvisi e a subire una metamorfosi da esseri umani a creature fatate. Durante la festa di Samaine i mondi degli uomini e quello delle fate e dei morti si fondono ed è possibile visitare un tumulo senza compiere sacrilegio. Vi si troveranno canti e balli, vino e buon cibo, ogni sorta di piacere e felicità. Le regole dell’universo verranno scardinate, tempo e spazio, luce ed ombra non seguiranno più le regole che solitamente li disciplinano. Ma tutto questo potrà durare per una sola notte.
  • Nell’Odissea troviamo posizionata ad Itaca, presso il porto di Forchis la grotta delle Naiadi. Queste Naiadi, che erano ninfe, erano intente a riempire la loro ombrosa grotta di ogni prelibatezza: miele e vino. Inoltre lavoravano ad enormi telai; chi entrasse nella grotta, dice Omero, ne avrebbe ricavato enorme stupore. Infine nel fondo della grotta vi era un’apertura che conduceva alle dimore degli dei. (xi)

Magnifiche dimore divine
Quali sono i comuni denominatori di tutti questi luoghi ctoni che abbiamo incontrato in questa lunga carrellata, dagli inferni alle magnifiche dimore divine?
Senza dubbio saltano all’occhio la grande ricchezza celata in questi luoghi, la connessione con l’umidità, la (con)fusione con gli esseri fatati e degli esseri dell’oltretomba.
I tre elementi che ho rilevato, a parer mio sono connessi l’un l’altro, e la loro connessione è, per usare un gioco di parole, la chiave di volta di tutti questi ambienti sotterranei.
Ma per spiegarmi ho bisogno di analizzare le figure dei nani e la storia di Demetra e Core.

I nani
La figura del nano è presente presso molte culture. Ovviamente non tutti i nani vengono chiamati con nomi che richiamano il nanismo come in italiano, ma, per esempio, i nani della tradizione nordica sono chiamati “dvergar”, parola che potrebbe avere sia una valenza specifica (xii) (in questo caso l’origine del termine sarebbe da ascrivere ad alcune figure mitologiche indoeuropee e da mettere in relazione alle dhvaras indiane, esseri femminili malvagi) oppure poterebbe significare “rattrappiti” in ordine al loro aspetto fisico gobbo e grinzoso.
C’è da dire che anche in Italia il termine nano è sovente sostituito con un termine quale omiciattolo o omicciolo (Siena), e le sue caratteristiche si confondono spesso con quelle del folletto.
Ma torniamo a vedere i nani sotto l’ottica di abitatori del mondo sotterraneo, lo facciamo riferendoci soprattutto alla tradizione di origine germanica (a cui dobbiamo accostare per analogia anche alcune tradizioni alpine, come quelle ladine, friulane e trentine): avevamo detto che questo mondo sotterraneo è molto simile all’aldilà: anche se nessuna fiaba specifica che il mondo dei nani è il mondo dei morti (se ne guardano bene!), possiamo certamente notare quanto tra l’oscurità dell’antico Ade e quella del mondo dei nani vi siano punti di contatto. Se i due regni non coincidono, di sicuro si assomigliano, in quanto entrambi regni dell’oscurità, mondi altri, differenti dal mondo ove luce ed ombra si alternano di cui gli uomini hanno esperienza. A sottolineare questa differenza tra i due mondi, quello solare e quello conio, sta la quasi assoluta inesistenza di unioni coniugali tra uomini e nani: mentre unioni tra esseri umani e esseri fatati sono presenti molto spesso nella fiaba, quella tra esseri umani e nani è rarissima e mi sovvengono due soli casi: quello del re Laurino e quello di Alviss.
Nel primo caso, la cui fonte è un’antica saga cortese di origine tirolese, Re Laurino, re dei nani, rapisce e sposa Brunilde, nobile e bellissima fanciulla, al cui salvataggio partecipa addirittura Teodorico di Verona. E’ però un’unione sterile (xiii).
Nel secondo caso più che di un’unione si tratta di un tentativo da parte di un nano, Alviss, di sposare una dea (essere che di certo non appartiene al mondo infero, e quindi sotto questo aspetto assimilabile ad una donna). Alviss chiese in sposa Þruðr (pron. Thrudhr), figlia di Þorr (Thor) dio della forza e grande sterminatore di giganti e nani: ci troviamo, lo avrete capito, in ambito nordico. Þorr interroga il nano per un’intera notte riguardo ai nomi che le cose assumono presso gli dei, gli uomini, i giganti, i nani, gli elfi. Nella sua dotta dissertazione il nano non si accorge del sorgere del Sole e al primo raggio di luce del mattino egli rimane pietrificato. Il mondo dei nani non potrà, neanche stavolta, unirsi al mondo che sta sopra la terra, e questo proprio a causa dell’astro che fa la differenza tra i due mondi, il Sole (xiv).
I nani (o meglio i dvergar), nella mitologia nordica portano spesso nomi che ricordano la morte per un verso o per l’altro. La loro origine inoltre e strettamente connessa alla morte: essi infatti sono i vermi che si svilupparono nel corpo di Ymir, l’uomo cosmico, dopo la sua morte, successivamente trasformati in esseri parlanti quali noi li conosciamo (xv).
Un altro punto depone a favore della somiglianza tra i due regni: se due supposti gemelli non si vedono mai insieme potrebbe essere che qualcuno ci stia facendo una burla e di gemello ce ne sia uno solo; nello stesso racconto non possono essere presenti sia il mondo dei nani sia quello degli inferi, nessun nano ha mai scavato così in profondità da arrivare all’inferno. Un regno esclude l’altro, come se a narrare una storia dove siano presenti entrambe i regni il narratore si sentisse a disagio, come se sentisse di narrare un falso mito.
D’altra parte la cosa si può e sui deve leggere anche in un’ottica opposta, in questo modo ci si trova di fronte ad un contraltare sufficiente a controbilanciare i punti fin qui illustrati, i due regni non vengono mai confusi. Dobbiamo fidarci della fiaba: né nella mitologia nordica, né nelle successive fiabe e leggende delle aree che abbiamo prima individuato (germanica, ladina, friulana, ecc.), come si è detto, non è mai avvenuto un contatto tra nani ed inferi. Si tratta di un dato di fatto che distanzia indiscutibilmente un regno dall’altro.
Da questi pochi cenni sui nani qui sopra si possono estrapolare altre sorprendenti e per certi versi contrastanti considerazioni. I nani, custodi di segreti tesori nelle viscere della terra, abitatori del buio e quindi esseri che hanno sviluppato percezioni diverse da quelle umane, sono anche custodi di una sapienza preziosa e sconosciuta agli uomini (valgano ad esempio la sapienza di Alviss, ma anche i poteri magici di Laurino che trasformò il suo giardino fiorito in un monte scosceso, oltre che i legami innati tra magia e metallurgia, arti di cui i nani eccellono). L’oro, ricchezza dei nani e da sempre considerato metallo “vivo”, la conoscenza e l’abilità vivificante della metallurgia (non rari gli oggetti animati costruiti dai nani) sono indice di quanto i nani siano vivi sotto le montagne. La vita dei nani, scandita dal ritmo delle fucine e dei mantici anziché da quello del sorgere e del calare del sole, potrebbe essere, nella concezione del mondo interna alla fiaba e alla mitologia, una vita altra, ma comunque altrettanto viva rispetto a quella umana.

La storia di Demetra e Core
Immagine a destra:
Ted Nasmith, The glittering cave of Algarond.

Demetra era una delle figlie di Crono e Rea, sorella di Estia, Era, Ade, Positone e Zeus. Faceva parte degli olimpi (cioè gli dei che risiedevano sull’Olimpo) sovrintendeva alla fertilità dei campi, delle foreste, del bestiame e delle coppie di sposi. Aveva un carattere gaio, non aveva marito, ma si univa spesso e con molta disinvoltura a dei e semidei. Da suo fratello Zeus ebbe il lussurioso Iacco e la bellissima Core. Dal titano Giaso, unendosi a lui su un campo tre volte arato durante la festa di nozze di Cadmo e Armonia, ebbe Pluto.
Ade si innamorò della figlia di Demetra, Core e si recò sull’Olimpo per chiedere a Zeus il permesso di sposarla. Questi non si sentiva né di acconsentire, per non dare un dispiacere a Demetra sua sorella, né di negare l’assenso, per non offendere il fratello. Rispose quindi di non poter negare né acconsentire. Ade si sentì quindi autorizzato a rapire Core, portandosela nel Tartaro. Tutta la spensieratezza di Demetra finì. Ella vagò per nove giorni e nove notti presso tutti i luoghi ove era stata vista sua figlia. Ottenne informazioni solo da Ecate, dea delle streghe, che dichiarò di aver sentito core gridare Aiuto!, ma, una volta accorsa sul luogo da dove provenivano le grida, di non aver visto nulla. Il decimo giorno Demetra si fermò presso la casa del re di Eleusi, Celeo. Quivi seppe dal figlio di questi, Trittotelmo che i suoi due fratelli, Eumolpo e Eubuleo, avevano visto dieci giorni prima aprirsi una voragine nei campi, che inghiottì i maiali di Euumolpo. Poi arrivò un carro trainato da cavalli neri su cui un guidatore misterioso, col volto nascosto, teneva stretta una fanciulla che lanciava alte grida.
Avuta questa prova, Demetra, facendosi accompagnare da Ecate , si recò presso Elio, il Sole, che dall’alto tutto vede e tutto sa, costringendolo a rivelare che l’autore del rapimento era Ade.
Demetra furibonda e disperata non risalì all’Olimpo ma prese a vagare nei pressi di Eleusi impedendo agli alberi di dare frutti e alle messi di crescere: per gli uomini potrebbe essere stata la morte, per questo Zeus e gli dei gli mandarono per ben due volte degli ambasciatori, ma Demetra si rifiutò di incontrarli. A Zeus allora si presentò l’unica soluzione: mandare Ermete come messaggero ad Ade, chiedendogli di restituire Core, e a Demetra, promettendogli la restituzione della figlia, a patto che questa non avesse mai toccato il cibo dell’oltretomba.
Nel Tartaro Core aveva rifiutato qualunque cibo, quindi Ade fu costretto a lasciarla andare, ma nel mentre che Ade la stava gentilmente aiutando a salire sul carro, un giardiniere di Ade, Ascalfo, gridò con tono di derisione di aver visto la regina Core cogliere una melagrana e mangiarne sette chicchi. Ade lo fece qindi salire sul carro, e portò anche lui ad Eleusi, da Demetra. Là Demetra potè riabbracciare felice la figlia, ma una volta ascoltata la storia della melagrana ricadde nella tristezza e nella disperazione. Disse: “Non tornerò mai più sull’Olimpo, e la sterilità continuerà ad affliggere la terra”.
Alora Zeus indusse sua madre Rea, che era anche madre di Ade e Demetra ad intercedere e a fare da paciere. Al fine si trovò un’accordo, Core avrebbe dimorato per tre mesi ogni anno presso Ade, ove sarebbe stata sua sposa e regina del Tartaro con il nome di Persefone, per gli altri nove mesi avrebbe vissuto con sua madre. Nei tre mesi in cui Core vive con il suo sposo vige ancora la maledizione di Demetra, negli altri nove la terra dà i suoi frutti; Ecate, che oltre che dea delle streghe è anche la dea preposta al sovrintendere i patti, si assunse i compiti di far rispettare questo patto e di vigilare su Core.
Ora Core, nel Tartaro, è sposa fedele ed amorosa verso suo marito Ade, come regina del Tartaro è misericordiosa verso le anime dei morti.
Demetra elargì doni a tutti coloro che l’avevano aiutata nella ricerca di sua figlia, punì Ascalafo per la calunnia imprigionandolo in una fossa chiusa da un pesante massi e, dopo che Eracle lo liberò, trasformandolo in un Barbagianni (xvi).


Il mondo della morte viene indissolubilmente collegato con quello della vegetazione e quindi della vita.
Come possiamo collegare gli elementi di questa storia con gli elementi che ho rilevato poco fa (ricchezza, acqua, la vita altra dei nani e la difficile, ma pur sempre possibile connessione tra il mondo superiore e quello ctonio)?

Ragionamenti pornografici e miti erotici
Immagine a destra:
Ted Nasmith, Eol welcomes Aredhel.

Penso che se volessimo ridurre il luogo ctonio ad un simbolo unico, come spesso si pensa di poter fare non ne verremmo più a capo. C’è chi ci ha tentato con ragionamenti cerebrali (ma anche un po’ pornografici) rilevando l’umidità del sotterraneo e riconducendolo all’utero femminile. Questo, luogo di vita a prima vista, ma secondo queste ipotesi luogo della morte ad un secondo livello di conoscenza, è anelato dal maschio in quanto luogo precedente alla tragedia della vita al di fuori dell’acqua. Potremmo anche crederci, non fosse che il desiderio sessuale è provato anche dai pesci e dalle donne.
È bene, invece, avere un approccio che consideri i contrari e la loro continua commistione che la fiaba opera. Come spesso l’aiutante magico è un vecchio, o un cagnolino, cioè un essere a prima vista di così scarso valore, che poi si rivela determinante per la riuscita dell’impresa, così anche il mondo sotterraneo, buio, apparentemente privo di vita e quasi mortale, può riservare sorprese. E queste sorprese sono diametralmente opposte a ciò che ci si aspetterebbe: esse sono vita, ricchezza e sapienza. La fiaba, anche questa volta, supera la contrapposizione di ciò che per logica è contrario (vita e morte, buio e vegetazione, povertà e ricchezza) e perviene, tramite quel processo che abbiamo chiamato meraviglia (xvii), ad un’unità magica e miracolosa, basata su valenze mitiche ed evocazioni poetiche
In tutta questa commistione di valenze e di evocazioni, positive e negative, mirabili e terrificanti, ironiche e solenni io, sarò io forse pazzo?, non scorgo simboli (non amo questa parola), ci vedo invece una grande ricchezza di cultura immaginifica, ci vedo, a dispetto della a-cultura materialista di oggi, i legami profondi tra l’uomo e la terra, tra la terra e la donna, tra la terra e la sapienza, tra la ricchezza e la sapienza. E scorgo, non so se sogno, il legame e l’unione tra la vita e la morte, tra eros e tanatos...

Note
  • i. Un breve elenco (non esaustivo) di alcuni accessi all’oltretomba dei greci tratto da Robert Graves, Miti Greci (Milano: Longanesi, 2005):
    • L’ingresso principale si trova in un bosco di bianchi pioppi (frenule) vicino all’Oceano;
    • presso le foci del Danubio si trova un’isola beata;
    • un altro ingresso si trova presso Tenaro in Laconia;
    • e un altro ancora presso Aorno nella Tesprozia;
    • ancora, sulla penisola Acherusia che si protende nel Mar Nero;
    • presso l’Orrido di Trezene;
    • presso la grotta di Acona che si affaccia sul Mar Nero.
  • ii. La frenula, o pioppo bianco, presso i greci era sacro a Eracle in quanto egli lo colse nell’Ade e sene fece una corona; si veda anche la nota precedente.
  • iii. Cfr. Italo Calvino, Fiabe Italiane (Milano: Oscar Mondadori, 1993). La fiaba riportata da Calvino è tratta a sua volta da Gino Bottiglione, Leggende e tradizioni di Sardegna, (Genève 1922) e da Filippo Valla, "Sant’Antonio Abate va all’Inferno" in Rivista di tradizioni popolari, I, 1894.
  • iv. Cfr. Gian Paolo Caprettini, Dizionario della fiaba italiana (Meltemi, 1998).
  • v. Cfr. Vittorio Imbriani, La novellaja fiorentina con la novellaja milanese (Arnaldo Forni Editore)
  • vi. Un accenno al complesso sistema di opposizioni vegetali si trova in Italo Calvino, "La tradizione popolare delle fiabe", in Storia d’Italia Einaudi, 5: i documenti, a cura di R. Romano e C. Vivanti, Torino 1973
  • vii. Cfr. Vittorio Imbriani, op. cit., "Il mondo sottoterra".
  • viii. Cfr. www.bifrost.it sez. italiana (Siena).
  • ix. Idem.
  • x. Hugo de Rossi di Santa Giuliana, Fiabe e leggende della Val di Fassa, Istitut cultural ladin Majon de Fascegn
  • xi. Cfr. Omero, Odissea, XIII, 94-112
  • xii. Hanno valenza specifica quei nomi, come fata o drago, che non richiamano alcun altro termine nella lingua di appartenenza, indipendentemente dall’etimologia. L’etimologia del termine nano è incerta.
  • xiii. Cfr Ulrike Kindl, Le Dolomiti nella leggenda, FK
  • xiv. Cfr. Gianna Chiesa Isnardi, I miti nordici (Longanesi, 1991)
  • xv. Idem.
  • xvi. Cfr. Robert Graves, I miti greci
  • xvii. Cfr. Cap. II

Imagine a destra:
Ted Nasmith, Aulë the destroyer

L’angoletto del Tolkieniano

Il semplice appassionato di folklore che avesse avuto un’infarinatura di mitologia nordica, leggendo le opere di Tolkien, si troverebbe ben presto a porsi una domanda: dove sono finiti gli elfi scuri?
Nella mitologia nordica gli Elfi (alfar, sing. alfr) si dividono in due specie, gli Elfi luminosi (ljósálfar), che senza dubbio hanno fatto da base nella creazione tolkieniana e gli elfi scuri (døkkálfar), esseri scuri di pelle, brutti e grinzosi, di cui in Tolkien pare non esservi traccia, a meno di non supporre che gli Avari, gli Elfi che non incominciarono neppure il lungo cammino verso ovest intrapreso dalla stragrande maggioranza degli elfi, fossero divenuti di quest’aspetto. Ma temo che mai potremo affermare con sicurezza una cosa del genere, in quanto Tolkien non ci dice pressoché nulla sugli elfi che rimasero presso Cunivien.
Ma ammesso di saperne di più, per fare il paragone con gli elfi scuri della tradizione nordica, servirebbe approfondire la conoscenza di questi ultimi. Allo stato attuale delle ricerche filologiche sulla mitologia nordica non sappiamo molto di più sugli elfi scuri di quanto ho detto prima: essi sono scuri di carnagione, piccoli e grinzosi, le femmine sono (secondo alcune fonti) invece leggiadre e belle. Essi a volte sono malvagi, fanno impazzire le persone o combinano terribili scherzi (sopravvive infatti il termine danese ellevild “pazzo [a causa di un] elfo, mentre il termine tedesco alpdruck = “incubo” deriva dalla credenza che a causarlo fosse un elfo seduto sul dormiente, il significato letterale del termine è infatti “schiacciamento dell’elfo”).
Ne sappiamo così poco che alcuni studiosi hanno proposto l’identità tra gli elfi scuri e i dvergar. Non solo per la somiglianza fisica, ma anche per i nomi che la tradizione assegna loro, infatti sono spesso nomi contenenti la parola alfr. Il celeberrimo (almeno fra i tolkieniani) Gandalfr è un nano, il cui nome significa “elfo esperto di magia”.
Oggi come oggi a ognuno la sua opinione.
Se quella che ho esposto, in ambito di mitologia nordica, può essere chiamata “questione degli elfi scuri”, in ambito tolkieniano può essere individuata una “questione degli elfi abitatori di caverne”.
Infatti, se gli elfi di Tolkien paiono ricalcati sugli elfi chiari della tradizione nordica, pare assai strana la collocazione di alcune loro dimore sottoterra. Le possibili spiegazioni di questa collocazione stanno forse in influenze della mitologia celtica (il popolo dei Tuatha De Danaan, anche se vive in parte nei tumuli, assomiglia non poco agli elfi dell’antica tradizione nordica), oppure in una volontà dell’autore di attribuire alcune caratteristiche degli elfi scuri della tradizione ai propri Eldar, come parziale pegno dovuto alla loro totale eliminazione.
Infine, anche se la tradizione nordica non parla di esseri luminosi abitatori del sottosuolo, si può aggiungere alle congetture fatte la considerazione dell’apporto di altre tradizioni, ove, come abbiamo visto nell’esempio della grotta abitata dalle anguane, gli esseri positivi del mondo solare non disdegnano abitazioni situate nel sottosuolo.
Tolkien inoltre mantiene uno spiccato riserbo sulle caratteristiche dei palazzi sotterranei degli eldar: nello Hobbit si premura di dirci che la maggior parte degli elfi di Bosco Verde il Grande abita sopra la terra e non sotto, e che il palazzo di Tharanduil conserva una luminosità sconosciuta ad altre dimore sotterranee. Benché Tolkien parli nel caso specifico di Orchi, dopo aver letto Il Signore degli Anelli e Il Silmarillion penso che potremmo estendere a tutte le dimore elfiche sotterranee questa maggior luminosità rispetto alle dimore ctonie degli altri popoli Tolkieniani, incluse le città naniche.
Nel sottosuolo della Terra di Mezzo i nani non hanno rivali. Le loro città scavate nella roccia suscitano sempre un’incondizionata meraviglia, anche agli elfi.
I nani tolkieniani prendono spunto dai nani della tradizione nordica, anche nei nomi: tutti i nani dello hobbit portano nomi riscontrabili in antichi poemi nordici, la stessa fonte vale per moltissimi altri nani di altre opere Tolkieniane. Altri punti d’analogia sono questi: portano la barba, sono grandi minatori, conoscono un po’ di magia, vivono a lungo, la loro sapienza è enorme. Ma non solo: mentre assistiamo a matrimoni fra uomini ed elfi, elfi e maiar, mai una nana o un nano ha contratto matrimonio o stabilito un’unione con qualcuno che vivesse di sopra, uomo o elfo che fosse.
Ma anche riguardo la particolare incompatibilità tra nani e mondo infero vi sono punti di contatto tra le tradizioni e l’opera tolkieniana. Dicevamo prima che nessun nano della tradizione ha mai scavato così tanto da raggiungere l’inferno. In Arda non esiste un regno dell’oltretomba sotterraneo come fosse il nostro inferno, ma posso pensare che Tolkien ha comunque sentito l’incompatibilità tra nani e mondo infero quando ha taciuto la loro sorte dopo la morte, suggerendo velatamente ed in modo molto insicuro la loro reincarnazione.
Se in Arda non vi è un inferno istituzionale vi sono però alcuni inferni dell’orrore. Sto pensando al tumulo in cui Frodo e compagni vengono imprigionati dallo spettro dei tumuli, al sentiero dei morti, alla tana di Shelob.
Attraversando questi luoghi i protagonisti dell’attraversamento dovranno subire la durissima prova della paura. Riemergeranno alla luce del sole temprati, si realizzerà la loro ascesa.
Ma anche a Mordor, Frodo e Sam trovano delle difficoltà che li formeranno. Questo luogo buio e sede di indicibile tormento è anch’esso assimilabile ai luoghi sotterranei, in quanto luogo non solare. Mordor, sotto questo aspetto, potrebbe essere individuata come un Ade o un Inferno di Arda.


Seguono gli Appunti del professor Alberto Carli, una raccolta di spunti, riferimenti bibliografici e tracce per ulteriori approfondimenti.

Miti classici (Demetra, Persefone, Ade-Plutone...)
  • da Demetra (Cerere) al mito ancestrale di una terra che cova il seme e che fa germogliare la vita come una madre, giungendo così alle celebrazioni antichissime della Potnia, della Grande Madre (che è poi una delle possibili etimologie del onomastico divino) o rievocare il culto dei misteri eleusini, richiamando altrettanto la figura di Persefone, figlia di Demetra, spesso accostatale, talvolta confusa con essa, ma portatrice in ultima istanza di messaggi ben più sotterranei.
  • il rapimento di Persefone, la nascita dell'Inganno dal melograno e il mito della fertilità semestrale, con il ritorno della dea da Plutone.
  • presa delle mosse da Plutone, da cui parte un percorso delineato tra sottosuolo e sotterranei ben più contemporanei, ma non per questo meno mitologici o legati ad archetipi facilmente riconoscibili.
Passando dal mito al folklore: Plutone assume altri connotati, come quelli delle figure orcali. Del resto già Vittorio Imbriani aveva legato le figure di Plutone e dell’orco fiabesco, ricordando l’etimo italico Orcus volto a indicare sia Plutone che il suo regno. Proprio a questa teogonia popolare che discende direttamente da quella mitologica attraverso scarti linguistici e storico-sociali diversi appartiene Il lupo mannaro della fiaba omonima di Luigi Capuana.

Luigi Capuana (1839-1915) ("Il Lupo Mannaro" in C’era una volta – 1882)
Il male (la morte), che guarda caso rapisce una reginotta in un mondo sotterraneo – come impone il mito, appunto –, è trasfigurato nel lupo mannaro che proprio nel segno di questo aggettivo, mannaro, rimanda al legame con il diavolo e con le forze dell’oscurità concepite nell’archetipo del buio, inteso come ciò che viene precluso alla vista, quindi alla conoscenza.
Il lupo, per altri versi, è facilmente identificabile come uno dei maggiori pericoli per i piccoli borghi di quel medioevo di cui ha scritto Vito Fumagalli ed era del resto una delle tante trasformazioni di cui era capace il diavolo...
«Maestà, male nuove. La Reginotta è alle mani d'un Lupo Mannaro, quello stesso che diè il rimedio e fece il patto col Re. Fra un mese le domanderà: mi vuoi per marito? Se lei risponde di no, quello ne farà due bocconi. Bisogna avvertirla.»
Il ricordo del «patto col Re» allude all’incontro avvenuto sette anni prima tra il monarca e un misterioso straniero venuto a proporre un rimedio alla sterilità della regina. Se partorirà un maschio lo terrete, ma se sarà femmina al settimo anno la abbandonerete nel bosco. Naturalmente la nascita non lascia scampo e la Reginotta, la principessa, viene abbandonata dal padre:
«E il Lupo Mannaro dov'abita?
Maestà, sotto terra. Si scende tre giorni e tre notti, senza mangiare, né bere, né riposare, e al terzo giorno s'arriva. Giunsero ad una buca, che ci si passava appena. Ed entrarono. Scendi, scendi, scendi, la Regina già si sentiva le ginocchia tutte rotte. [...] E sbucarono in una pianura.»
La pianura non è necessariamente l’Orco di memoria classica, ma evoca la tradizione della terra concava e abitata al suo interno tanto quanto quella della dimensione “altra”. Vi è comunque il tema mitico della discesa agli inferi, facilmente rievocabile in buona parte delle opere letterarie più note di ogni tempo. Si tratta di una discesa culturale, in questo caso, non dalla terra al sottosuolo ma dalla cultura del mito a quella popolare, volte entrambe a indicare l’archetipo medesimo di “ciò che sta sotto”.

Giovanni Verga (1840-1922) ("Rosso Malpelo" in Vita dei campi - 1880)
Nell’epistolario curato parecchi anni fa da Gino Raya si nota che tra il 1880 e il 1883 il rapporto epistolare tra Verga e Capuana è piuttosto intenso.
Non sarà casuale che nel 1883 Capuana si dedichi alla creazione letteraria di un Ranocchino sciancato molto simile e probabilmente legato al Ranocchio verghiano. Ma se per Capuana, o per lo meno per il Capuana delle fiabe dedicate ai più piccoli, sottoterra vive il lupo mannaro, per la lapidea scrittura di Verga, la cava di rena rossa diviene essa stessa una vera creatura vivente che inghiotte e digerisce Misciu-Bestia davanti agli occhi del disperato Malpelo.
«Tutt'a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.»
Ovviamente a Malpelo, perfettamente in linea con il pensiero verghiano che impone il tramandarsi per generazioni di sciagure e destini, tocca la sorte del padre, piuttosto che finire in galera, come malauguratamente gli pronostica lo Sciancato:
«Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra […] Ma a ogni modo, però, c'era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo, per tutto l'oro del mondo.»
Così ancora una volta la terra inghiotte per non restituire. Inghiotte chi è destinato alla morte, chi sottoterra finirebbe comunque, anche se c’è ancora il tempo perché Verga lanci al lettore il ricordo delle tradizioni popolari che Malpelo, come si vede, conosce essendo figlio del popolo. Tradizioni popolari che rievocano mondi sotterranei in cui perdersi come il minatore fantasma che ancora lancia il suo grido disperato. Come ogni bambino, anche Malpelo si identifica nel personaggio di questa storia lugubre e appena indicata, prima di partire per non fare ritorno mai più.
«Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l'oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo.
Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.»
Malpelo stesso diviene parte dell’immaginario tradizionale e delle storie che si raccontano ai bambini. E si deve fare attenzione, perché il finale della novella è ancora assolutamente aperto. Verga non scrive espressamente che Malpelo muoia sottoterra, anche se è facile intuirlo. Altrettanto facile, se si applica appena uno scarto della fantasia e per dirla con Capuana ci si presenti l’occasione per vivere una «deliziosa allucinazione», è riservare a Malpelo un destino diverso magari da coboldo. O, se si preferisce, aprendo una breve digressione assolutamente lontana da Verga, un destino da mutante, come in L’essere nella caverna di H.P. Lovecraft, scritto e pubblicato nel 1905. Qui ad un malcapitato speleologo, smarritosi, tocca la malasorte di imbattersi in un essere albino e carnivoro, che una volta era stato anch’egli uomo, persosi nella grotta medesima.
Ma per tornare in Sicilia...

Luigi Pirandello (1867-1936) ("Ciaula scopre la luna" in Novelle per un anno)
Un altro bambino perso nel buio della terra è Ciaula. E Ciaula, come Malpelo, non ha paura del buio della terra, nei cui cunicoli scende sovente. La paura è dettata invece dal buio “vano” della notte.
«Cosa strana; della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura; né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno d'acqua sulfurea: sapeva sempre dov'era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.
Aveva paura, invece, del bujo vano della notte.»
Carlo Dossi, nelle Note azzurre, scriveva:
«Oggi, i viaggi non allettano più. Non ci sono più terre veramente incognite. Nel nostro studiolo possiamo percorrere il mondo sulle riviste e le fotografie. Soltanto un viaggio alla Luna o a qualche altro pianeta o stella mi adescherebbe. (5243)»
Dossi comincia a scrivere Le note azzurre dal 1870 e più che probabilmente l’allusione al viaggio lunare è diretta al celebre romanzo di Jules Verne Dalla Terra alla Luna, pubblicato nel 1865.
Chissà, magari Dossi si sarebbe smosso anche per un Viaggio al centro della Terra...

Jules Verne (1828-1905) (Viaggio al centro della terra, 1864)
Nel romanzo di Verne, la mappa che conduce al centro della terra è un antico manoscritto trovato in un vecchio libro. Il manoscritto è stato redatto in caratteri runici da un alchimista del XVI secolo. Il prof. Otto Lidenbrock decifra il manoscritto e parte all’avventura con il nipote Axel e Hans, una guida fedele e impassibile.
Jules Verne sapeva benissimo che il centro della Terra raggiungeva temperature elevatissime e aggira l’ostacolo: nessuno dei suoi protagonisti infatti arriva al centro della terra. Eppure, appena prima del centro incandescente del pianeta, tra selve di funghi giganti, ittiosauri e peisiosauri sopravvissuti, di avventure ce ne sono già più che a sufficienza per gli appartenenti a una spedizione che sarebbe rimasta celebre nel canone della fantascienza, allora ai suoi esordi.
È però un libro particolarmente curioso e ormai dimenticato a condurci in un sottosuolo forse più familiare ma non per questo meno ricco di buio, orrori, scoperte, brividi.
Le cantine, gli anfratti, le fogne, le metropolitane e tutti i sotterranei degli spazi antropici, dei palazzi, dei condomini, delle più semplici case di campagna in cui ancora un autore capace come Eraldo Baldini ambienta cupe novelle sospese tra horror e moderna demopsicologia, rappresentano cunicoli e angoli bui già ben noti a Carolina Invernizio del celebre Nelle cantine.
Si tratta del sottosuolo moderno.

Parodia:
COLLODI NIPOTE (Sussi e Biribissi. Storia di un viaggio al centro della Terra, 1902) ILLUSTRATO DA CARLO CHIOSTRI CHE AVEVA DEL RESTO ILLUSTRATO ANCHE PINOCCHIO, DELLO ZIO DI COLLODI NIPOTE
Sussi e Biribissi sono due bambini molto svegli e indipendenti. Affascinati dal libro di Verne – come quindici, vent’anni fa ci si entusiasmava per le imprese di Indiana Jones – partono da una casa, armati di candele e in compagnia di un gatto parlante, avventurandosi nelle fogne per raggiungere appunto il centro della terra.
Chiaramente si tratta di un libro edito espressamente per ragazzi, appartiene cioè a quel campo sempre troppo poco studiato della letteratura giovanile che si propone scopi diversi, tra i quali anche quello più espressamente pedagogico.
Anche quello di far prendere coscienza ai più giovani, sebbene con il piglio umoristico dei Collodi, che non è possibile replicare nella realtà l’iter fantastico proposto da Verne. Si evitano così, attraverso una pedagogia letteraria dell’esempio, spropositi fanciulleschi reali che potrebbero facilmente condurre a risultati indesiderati.
Sussi e Biribissi è un volume scritto sull’onda del successo di Verne e ne mette in parodia non tanto i contenuti, ma secondo una linea di sociologia letteraria, l’effetto che l’opera verniana ebbe sull’immaginazione dei più giovani lettori.
I due non raggiungono certo il centro della terra, né del resto hanno con loro il manoscritto di un antico alchimista. Passeranno per manicomi e conventi, incontrando topi e talpe, ma si renderanno ben presto conto che il libro di Verne è solo opera di fantasia, adatta per sognare, ma non certo per vivere.
Certo è che i due scendono davvero sottoterra, ma è un sottoterra “casalingo” fatto di puzze e odori consueti e familiari. Non è certo il sottosuolo archetipo di Verne o quello mitico in cui scorre l’Acheronte.
Eppure non serve necessariamente la profondità di un Inferno dantesco per condurre il lettore nelle profondità di se stesso e delle sue paure più profonde. Basta una cantina, un sotterraneo e una piccola, pericolosa sbadataggine. Lo aveva già insegnato Edgar Allan Poe.

Edgar Allan Poe (1809 - 1849) (La rovina di Casa Husher)
In realtà a scatenare tutto l’orrore di questa splendida novella è la malattia. Perché Roderick Husher, padrone della lugubre e scalfita dimora in cui si svolge la trama, è affetto da una malattia nervosa che ne acuisce sempre maggiormente i sensi.
Lady Madeline non è da meno e la descrizione che Poe le riserva influenzerà meno noti scrittori come il nostro Igino Ugo Tarchetti.
Donna malata e resa splendida vampiro dalla malattia stessa, alla sorella di Husher toccherà un seppellimento prematuro.
Il tentativo di Husher di conservarne le spoglie nel sotterraneo della casa maledetta farà sì che si scateni, dalle profondità appunto, tutto il male possibile.
«Non lo udite? ... Sì, l’odo, e l’ho udito a lungo… a lungo… a lungo… Molti minuti, molte ore, molti giorni l’ho udito… Eppure non ho avuto il coraggio… oh, pietà di me, miserabile scellerato che sono […] Noi l’abbiamo messa viva nella tomba! Non vi ho detto che i miei sensi erano acuti? Ora vi dico che ho sentito i suoi primi deboli movimenti nel fondo della bara, li ho uditi… molti, molti giorni fa.»
Fino alla rivelazione finale:
«Pazzo! Vi dico che ora ella è in piedi dietro alla porta»
Dove la porta naturalmente rimanda all’archetipo di ciò che non si dovrebbe aprire e che invece nel racconto fantastico come nella fiaba, inesorabilmente viene aperto.
Insomma, all’uomo moderno, così come non basta più l’orco della fiaba tradizionale che si trasforma in serial killer adatto a infestare la flora del romanzo d’appendice, non bastano nemmeno le profondità telluriche. Ci si avventura per sotterranei di vecchi manieri che bastano a calare gli avventurieri in profondità psicologicamente inarrivabili e terribilmente più pericolose. Si segue così il procedimento letterario che fa della quotidianità di oggetti e ambienti quotidiani (come una cantina o un solaio, a voler guardare in alto) oggetti e ambienti perturbanti nel momento in cui la quotidianità si deforma in una sua percezione volutamente e letterariamente alterata.
Ad ogni modo, nei sotterranei dei vecchi manieri maledetti non si dovrebbe scendere. Si rischia di rievocare maledizioni di famiglie dannate e disperse nei secoli passati come accade al giovane rampollo dell’antica famiglia De La Poer protagonista del racconto I ratti nel muro, di Howard Phillips Lovecraft.

Howard Phillips Lovecraft (1890 - 1937) (I ratti nel muro 1923; Il modello di Pickman 1926)
Lovecraft tende a far propri due archetipi che diventano colonne portanti del racconto I ratti nel muro:
  • le profondità abissali di una casa maledetta da antiche dicerie
  • l’antropofagia
Nel consueto stile paludato con cui l’autore americano, spesso rabbrividendo egli stesso, evoca miti ancestrali non necessariamente legati a quelli descritti come “dei Grandi Antichi” (secondo le allucinate teogonie lovecraftiane) ma anche alle profondità della storia greca e romana o addirittura, in veste maggiormente esoterica, egizia e medio-orientale.
Nel caso dei Ratti nel muro sotto le cantine dell’antica casa si estendono, inesplorati, cunicoli e caverne che conducono ad una antica e diroccata città sotterranea dei morti in cui si accumulano ossa di ibridi scimmieschi, vagamente umani.
Si scopre lentamente che la necropoli altro non è che un orrido allevamento con macello incluso per esseri umani o semi-umani ingrassati dai De La Poer a scopo facilmente intuibile.
Ma se I ratti nel muro rappresentano ancora uno di quei racconti in cui il visionario di Providence si avvale dello stratagemma tipico del racconto gotico, ovvero quello dell’antico castello maledetto, infestato o nelle cui profondità si celano terribili segreti, nel meraviglioso Il modello di Pickman, Lovecraft rende lugubri e pericolosi i sotterranei e le metropolitane di Boston, città che più di altre in America, ha goduto e sofferto insieme dello stratificarsi di più culture tra cui quella della Vecchia Europa.
Pickman, artista maledetto del pennello, discendente di una strega impiccata a Salem nel 1632, dipinge ed espone nella Boston dei tardi anni Venti quadri spaventosamente realistici pur nel loro canone apparentemente fantastico:
«E questo – scrive Lovecraft – perché solo l’artista autentico intuisce la vera anatomia dell’orrore, la fisiologia della paura, conosce con precisione quali linee e proporzioni scaturiscano dalle pulsioni latenti o dalla memoria ancestrale del terrore.»
Pickman dipinge demoni dal viso canino e lezioni infernali che ricordano molto i sabbath di Goya, peraltro più volte citato nel racconto lovecraftiano.
Orrori antropomorfi e zoomorfi congiuntamente che realmente infestano le cantine, i sotterranei e le metropolitane in cui il protagonista del racconto che narra in prima persona gli eventi accaduti si rifiuta ormai di scendere.
«Ascolta! Un tempo in tutto il North End c’erano gallerie sotterranee che collegavano alcune case fra loro e le univano al cimitero e al mare […] sotto terra ogni giorno accadevano cose […] e di notte risuonavano provenienti da chissà dove! Ebbene, amico mio, sono pronto a scommettere che nelle cantine di otto case su dieci, anteriori al 1700 e tuttora in piedi, potrei mostrarti cose molto bizzarre. Quasi ogni mese si legge che qualche operaio, nel demolire questo o quell’edificio, si imbattuto in arcate di mattoni e pozzi ciechi […] c’erano le streghe e le creature che evocavano»
Le opere di Pickman, del resto, sono opere “dal vero”:
«C’era un lavoro intitolato Incidente nella metropolitana: si vedeva un’orda di esseri abominevoli che emergendo da qualche catacomba sconosciuta attraverso una spaccatura della metropolitana di Boylston Street, si avventava sulla folla assiepata sulla panchina […] Seguivano varie vedute di cantine con mostri che sbucavano strisciando da fori e da fenditure nei muri, e digrignavano i denti, appiattiti dietro le caldaie o le botti, in attesa che la prima vittima scendesse le scale.»
Ma non hanno nulla a che fare con i demoni canini e rapaci di Lovecraft, poetici nella loro forma deforme e neogotica tipica dell’autore, i veri mostri delle più moderne metropolitane. Se anche resta celebre nella filmografia hollywoodiana la scena del film Ghost, in cui un Patrick Schwaitz impacciato fantasma impara ad attraversare i treni in corsa della metropolitana newyorkese – infestata evidentemente dai tempi del più lontano e memorabile Ghostbusters –, non serve andare oltreoceano per assistere al reclutamento di uno “spazzino” cui viene assegnato da un vecchio malato e misterioso il compito estremamente ben pagato di far piazza pulita nel peggiore dei modi di zingari, elemosinanti, poveri, vagabondi, in un affresco di follia e xenofobia molto moderno, contemporaneo e terribile nella sua nefandezza.

Accade in Alda Teodorani ("E Roma piange" in Gioventù cannibale, 1996)
«Beh, la ragazzina zingara mi ha puntato dentro il vagone della metropolitana B, quella che va a Piazza Bologna […] mi ha mollato un cazzotto in faccia e mi ha preso il portafoglio dalla tasca della giacca […] L’ho presa per la camicetta mentre stava per scendere dalla metropolitana. L’ho trascinata con me e nessuno, dico nessuno, mi ha fermato e nessuno si è voltato a guardarmi.»
Era il 1996 e tra i nomi dell’antologia einaudiana Gioventù cannibale, spicca oggi il nome allora meno noto di Niccolò Ammaniti, che di lì a poco avrebbe pubblicato il noto Io non ho paura. Credo che data la diffusione del libro e del bel film che ne ha tratto Gabriele Salvatores non sia il caso di soffermarsi ulteriormente su un’opera particolarmente coinvolgente e molto riuscita: basterà ricordare il mistero del buco nel terreno che si apre misterioso nel LUOGO DEL GIOCO (terreno di crescita ed esperienza) di un luogo diroccato, la scoperta di un bambino del sottosuolo, un bambino perduto, un bambino rapito dagli orchi che meno di altri possono sembrarlo, ma che talvolta, nelle pieghe e nelle piaghe odiose del quotidiano, sempre meno sotterranee, tali diventano.

Note biografiche
Alberto Carli e la Collezione anatomica Paolo Gorini
Alberto Carli è un giovane ricercatore che sonda quel terreno per ora inesplorato tra scienza e letteratura, antropologia e medicina. Le sue ricerche, nel corso degli anni sono andate ad accendere un lume sul legame tra movimenti letterari quali la scapigliatura e le coeve rivoluzioni del sapere in campo medico e scientifico, senza dimenticare che per meglio comprendere questi legami è necessario studiare i sentimenti e i meccanismi umani che da sempre soggiacciono ai miti e alla fiaba, alla letteratura e alla leggenda metropolitana.
Da alcuni anni è il curatore del museo Collezione anatomica Paolo Gorini di Lodi, raccolta dei preparati anatomici dell’illustre scienziato. È inoltre assistente presso l’Università cattolica del corso di Letteratura per l’infanzia, materia in cui ha conseguito il dottorato accademico.
Ha partecipato a vari convegni e collaborato con varie riviste, fra cui Studi tanatologici (ed. Bruno Mondatori) e ha pubblicato due libri: Anatomie scapigliate, per Interlinea, nel 2002 e Paolo Gorini (1813 – 1881). Storia di uno scienziato per Bolis nel 2005.
Infine va sottolineato che è uno degli animatori del Caffè versato, caffè letterario milanese nato nel 2003 ed ora noto al pubblico grazie alla cura del libro Terzo millennio - Under 25, raccolta di racconti di giovani autori, pubblicato da Costa & Nolan, a cui ha collaborato.

Federico Beltrami e I difensori di Feeria
Federico Beltrami studia e ricerca da alcuni anni racconti di mitologia popolare, andando ad indagare l’incanto.
Fa parte dell’associazione culturale Eldalië, con cui collabora, e per conto della quale sta sviluppando il progetto I difensori di Feria: raccolta di documenti del folklore popolare e saggi di divulgazione ed analisi della letteratura popolare.
Vanta alcune esperienze di narrazione e lettura pubblica di fiabe e due tavole rotonde tenute presso le precedenti manifestazione dell’Associazione culturale Eldalië: "Il folklore nella storia, dalle antiche fiabe al fantastico odierno" e "Il fantasy ed il mito da Omero a Tolkien ed oltre: origini e possibili scenari futuri".
E’ inoltre uno dei più assidui frequentatori del caffè letterario Caffè versato, caffè letterario milanese nato nel 2003 ed ora noto al pubblico grazie alla cura del libro (a cui ha collaborato) Terzo millennio - Under 25, raccolta di racconti di giovani autori, pubblicato da Costa & Nolan.

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