Google+ Bolgeri - il Gruppo Tolkieniano di Milano: Mythopoeia: Universo Aperto, Mondi Condivisi

domenica, marzo 25, 2007

Mythopoeia: Universo Aperto, Mondi Condivisi

Michael Hague, gli elfi di Rivendell (illustrazione allo Hobbit)

Il seguente articolo, dell'artista Ella de Mircovich, è la presentazione di un concerto che si terrà domenica 25 marzo a Monza (presso il Collegio della Guastalla di viale Lombardia 180) e di cui abbiamo parlato qui. Ringraziamo il presidente Roberto Maier per la sua gentilezza e disponibilità a fornirci tutte le informazioni per pubblicizzare adeguatamente l'iniziativa.

Mythopoeia: Universo Aperto, Mondi Condivisi
Ovvero: cenni inutilmente prolissi e deprecabilmente ambigui su certi strani appalti creativi

“Lui era uno che dentro al linguaggio c’era stato davvero”
(C.S. Lewis, riferendosi a JRR Tolkien)


A giudicare dall’alquanto esoterica congerie del titolo, potreste benissimo paventare di trovarvi in bilico al limitare di un’ ennesima antologia Fantasy /New Age.
Onde fugare lodevoli timori – o dare il colpo di grazia a malriposte speranze - riveliamo immediatamente i significati degli eterogenei ingredienti fusi nella nostra chimera di frontespizio, quella che va perversamente pavoneggiandosi poche righe più su.
Nell’espletare tale opera di blando nozionismo, speriamo en passant di offrire alcuni (prolissi e ambigui, come già dichiarammo) cenni sulle idee portanti che ronzavano in mente al Laurelindale in un momento fondamentale: allorché meditava di caratterizzare in qualche modo le chiavi mediante le quali tentava (tenta tuttora) di scassinare i portali d’ingresso alla Terra di Mezzo.

Mythopoeia (lungi dall’essere un’oscura branca dello gnosticismo recentemente tornata di moda) è il titolo di un concettoso ma imprescindibile poemetto dedicato da JRR Tolkien, nel 1931, all’amico e cocreatore di luoghi fantastici C.S. Lewis. Nei densissimi e vagamente miltoniani versi, JRR rivendica con appassionato trasporto il ruolo dell’Uomo, il Subcreatore, che nella sua capacità di dar forma a innumerevoli mondi conserva un’estrema scintilla dei talenti e delle facoltà che il Creatore, prima del tragico coup de théatre della Caduta, gli aveva originariamente assegnato.

Quanto alle due espressioni successive, non sono in realtà niente di più pretenzioso di termini squisitamente tecnici del gergo SF (esimeteci, caldamente vi supplichiamo, dal mettere per iscritto il lamentevole sostantivo composto col quale Manganelli qui in Italia sconciò l’Epica dell’era moderna.)
Un Open Universe (entro il quale possono essere ambientate infinite storie shareworld) altro non è che uno di quei maestosi galattici palcoscenici su cui si dipanano le space operas: a loro volta versioni poliplanetarie dei cosiddetti planetary romances – dei quali, all’insaputa di milioni di lettori, The Lord Of The Rings è uno degli esempi più spettacolari, teste la più autorevole delle enciclopedie di SF, quella pluridecorata dovuta a J.Clute e P.Nicholls.
Nel caso specifico, un Universo virtuale del genere lo si definisce ‘aperto’ - oltre che per i panorami infiniti cui allude - perché l’autore, da bravo Subcreatore nell’accezione tolkieniana, non ne reclama il monopolio, bensì invita altri scrittori a infiltrarsi, a smarrirsi nei paesaggi e nelle distese temporali da lui idealmente partorite.
(Un'altra caratteristica degli Open Universes, un tantino più elusivamente metafisica ma che a JRR non sarebbe dispaciuta, è quella sottolineata da diversi autori SF dalla vena tendenzialmente onirica, come R. Bradbury o F. Brown. Tali Universi, e i loro abitatori, esistono davvero, su un serio piano ontologico – ma solo finché rimane almeno un ultimo libro a descriverli, un ultimo lettore a credervi. Altrimenti, finiscono inevitabilmente per ‘sbiadire’ e abbandonarci, un po’ come gli Eldalie tolkieniani con l’avvento delle Ere degli Uomini.)

Maestosi monumenti SF sono stati e continuano a essere Open Universes (pensiamo solo al ciclo della Fondazione di I. Asimov, o a quello di Dune di F. Herbert); e JRR, pur non essendo stato affatto un patito di SF come lo era l’amico Lewis, parlando dei suoi intricati cicli narrativi li descrive esattamente come se si trattasse di un’impresa di shareworld: “questi cicli dovranno essere connessi in una singola imponente totalità, e ciononostante poter dare occasione ad altre menti e ad altre mani di contribuirvi, esercitandovi le arti della pittura, della musica e della drammaturgia” (questa, come le altre citazioni testuali di JRR che seguiranno, sono tratte dall’Authorized Biography di H. Carpenter.)

Superfluo dire come noi del Laurelindale si abbia trovato un’ appagante giustificazione alle nostre maldestre ma entusiastiche alchimie in una simile - tanto inequivocabile quanto nobile - dichiarazione d’intenti del Padre Fondatore.
In tale spirito abbiamo cercato di ‘appurare com’erano in realtà, non di inventare’ (lo diceva JRR contemplandosi in veste di ‘scopritore’ e non ‘fabbricatore’ di storie) le pratiche strumentali e testuali – musicali e linguistiche - della Terra di Mezzo. Un atteggiamento di necessità pudicamente subcreativo e inerentemente ‘collegiale’, che non a caso i già citati Clute & Nicholls definiscono affettuosamente “il modello esemplare di come la comunità SF mette se stessa in gioco” .

Gli stessi autori ci offrono un'altra acuta osservazione sul corpus letterario tolkieniano. Constatando che “la Linguistica è la più‘scientifica delle cosiddette scienze umane”, sostengono che vi siano ottime basi per ‘arguire come l’opera di Tolkien, generalmente classificata come Fantasy, sia piuttosto SF, se non altro per le sue implicazioni linguistiche. Il Signore degli Anelli è altamente inusuale, essendo stata la sua genesi eminentemente linguistica.’
Tolkien stesso di tanto in tanto era colto da una specie di angoscia esistenziale riguardo alla collocazione categoriale dei suoi scritti. In una lettera al suo editore, Unwin, ebbe ad ammettere che quell’opera avvincente, scaturita tanti anni prima dal fascino di un singolo verso allitterativo anglosassone (eala Earendel engla beorhtast!), era alla fine “sfuggita al mio controllo. Ho generato un mostro: un romanzo immensamente lungo, complesso, alquanto amaro e piuttosto terrificante, assolutamente inadatto a dei bambini”. In effetti JRR voleva mettere in chiaro che il suo nuovo shareworld non aveva affatto l’aria di un simpatico sequel dello Hobbit – ma stava al tempo stesso ammettendo, a modo suo, di essere entrato in un territorio dell’immaginazione del tutto nuovo e inquietantemente poco ‘fantasioso’.
Un Mondo Condiviso dai contorni aspri, iperreali e fascinosi, entro cui noi del Laurelindale siamo, fondamentalmente, sgusciati da due varchi: quello delle sue lingue, vive e vegete quanto qualsiasi idioma corrente (JRR ben a ragione si compiaceva di non essere mai diventato uno di quei “filologi occhialuti, inglesi di origine ma ammaestrati in Germania, e che in Germania avevano perduto la loro anima letteraria”); e quello della sua musica, evocata quasi in ogni pagina, ma a differenza delle lingue mai ‘udita’ distintamente da Tolkien, che non era certo ciò che si definisce un melomane.

JRR pareva trarre un eccezionale godimento nel ribadire le radici pervicacemente linguistiche delle sue subcreazioni. Le radici linguistiche della sua intera esistenza, saremmo tentati di insinuare, facendo eco a Lewis: “lui era uno che nel linguaggio c’era stato davvero”.
Fin da piccolo aveva vagabondato avidamente in un universo di parole che lo affascinavano, lo incuriosivano, lo ossessionavano. Uno dei suoi primissimi ricordi di infanzia si riferisce a una discussione filologica con sua madre, che tentava invano di convincerlo che si deve dire ‘un gran drago verde’, non già ‘un verde grande drago’. Non essendo stata capace di giustificare soddisfacentemente la regola in base alla quale ciò era obbligatorio, stimolò una volta per sempre la curiosità e la concretezza del figlio per quanto concerneva varie strutture idiomatiche, nonché imponenti creature dall’enigmatica tassonomia.
Durante la fanciullezza e l’adolescenza si innamorò perdutamente di lingue reali e immaginarie. La prima pare fosse il gallese (i cui suggestivi toponimi sui cartelli delle stazioni ferroviarie rendevano per lui i viaggi in treno avventure eccitanti: da quella rurale fonetica avrebbe tratto molti anni più tardi ispirazione per il Sindarin, l’Elfico Minore). Seguirono l’Animalico, e il Nevbosh, messi a punto con un gruppo di amichetti, il Naffariano (pesantemente influenzato dallo Spagnolo, un’altra delle infatuazioni fanciullesche di JRR al pari del Greco antico – “punteggiato di asperità, e con quello sfavillio di superficie che mi parlava di cose antiche, aliene e remote”).
Poi, parole sue, ebbe “una storia d’amore col Manuale Delle Lingue Gotiche del Wright”: si affrettò a creare una sua plausibilissima versione di Neogotico (di cui qua e là si sentono gli echi nell’onomastica dei sovrani della linea cadetta di Gondor). Ma ecco infine la scelta di iscriversi a Filologia Germanica a Ofxord, l’immersione nell’ Anglosassone (donde il famoso verso che già citammo, nel quale si applica a Maria Stella Maris un misterioso epiteto astrologico scandinavo) e nel Norreno della mitologia germanica (mai filtrata attraverso Wagner, come accadde invece a Lewis), e nell’ antico Finlandese, progenitore del Quenya, l’Alto Elfico. (Già che ci siamo: ‘Laurelindale’ significa letteralmente, in Elfico arcaico, ‘Musica Aurea’.)

Le immediate ricadute pratiche, esecutive, interpretative e stilistiche, prodotte dalla decisione del Laurelindale di Condividere questo Mondo, di Aprirsi un varco in questo Universo sono state di diversa natura.

La scelta della parola ‘letta’ si è presentata, ovviamente, inevitabile. JRR fin dai suoi primi passi nei regni dei Valar, degli Eldar, dei Nani e degli Hobbit ha sempre percepito la narrazione come un qualcosa di materialmente sonoro. Ne è chiara testimonianza il fluido, orecchiabile e colloquiale ritmo della sua prosa, che veniva regolarmente proposta da lui ai suoi colleghi e complici dell’Università. La sfida è improba, perché abbondano le testimonianze di come JRR fosse un raccontatore impareggiabile. Di alcune sue letture dicono W.Auden: “fu un’esperienza indimenticabile sentirlo recitare: la voce era quella di Gandalf” e J. M. Stewart: “era capace di trasformare un’aula per conferenze in una sala da banchetto altomedievale in cui l’idromele scorreva a fiumi: lui era il bardo, noi il pubblico felice e gaudente”.
Noi non possiamo che inchinarci e sentirci piccini: ma l’idea di base che vorremmo trasmettere sarebbe più o meno proprio questa.

Il discorso musicale è più articolato. Come abbiamo già accennato, Tolkien non era un grande intenditore di musica. Non largheggia in descrizioni di strumenti, se si eccettuano le ubique arpe (certamente un’influenza dell’altissimo status di suddetti cordofoni nell’epica germanica tanto cara e nota all’autore): è dunque per queste che abbiamo optato risolutamente, rifuggendo dai più nutriti e elaborati organici naneschi adombrati ne Lo Hobbit. I colori vocali – perlopiù maschili – cui JRR allude sono quasi sempre (Nani esclusi, nuovamente) caratterizzati da aggettivi che suggeriscono una timbrica brillante, limpida, di notevole raffinatezza; o, nel caso degli Hobbit, delle duttili voci bianche. Una menzione specifica va riservata alla particolare tessitura che Tolkien attribuisce alla Dama Galadriel, a suo dire un contralto dala voce “più profonda di quanto solgano esserlo quelle delle donne”.

Ben più aleatorio immaginare una sorta di cifra stilistica delle melodie, che devono essere null’altro che il supporto più naturale e ovvio possibile di testi contenenti già di per sé tutto quel che c’è di importante da raccontare e da esprimere emozionalmente.
Anche in questo caso, non abbiamo ‘inventato’ autonomamente – abbiamo ‘tentato di appurare’ come quelle canzoni dovevano essere state in effetti. L’assolutamente non preventivato risultato finale (che si potrebbe grossomodo definire un misto di modalità medievale, di Border Ballads e di musica tradizionale irlandese) ci ha soddisfatto, soprattutto pensando a ciò che JRR scrisse cercando di condensare in poche parole quell’inafferrabile ineguagliabile atmosfera che pervade tutti i suoi cicli: “vorrei che possedesse il tono e la qualità che desidero, un qualcosa di limpido e freddo, che faccia venire in mente un’aura Nord-Occidentale – intendendo con ciò la Gran Bretagna e le propaggini nordoccidentali dell’Europa, nulla di italico o di egeo… qualcosa che sia impregnata anche di quella nobile, elusiva bellezza che alcuni definiscono ‘celtica’”. Va tenuto presente che JRR in realtà affermò più volte di detestare le bizzarrie della mitologia celtica, pur ammettendo che i suoi Elfi non erano certo gli eterei bambocci alati familiari ai cultori di fiabe, bensì l’esatto equivalente degli Alti Elfi dei miti irlandesi: i Sidhe, bellicosi e bellissimi esseri sovrannaturali dall’alta statura, dalle magiche arpe e dalle lunghe chiome, che dimoravano in una sorta di universo parallelo dal quale non disdegnavano di sconfinare per mescolare le loro turbolente vicende a quelle degli umani (coi quali talvolta si univano perfino in matrimonio). E’ appunto dal vasto repertorio tradizionale irlandese associato ai Sidhe che il Laurelindale si è azzardato a trarre, pari pari, alcuni brani puramente strumentali.

Al termine di tutti questi sproloqui e vagabondaggi, in parole e in musica, ci resta qualche serio dubbio: saremo riusciti, almeno in parte, a compiere l’impresa improba ma esaltante di Condividere Un Mondo con JRR? di subcreare, almeno per un’oretta, quello che lui chiamava “un Mondo Secondario, al quale la vostra mente ha diritto di accesso; in esso, quel che il narratore riferisce è assolutamente vero, non contraddicendo le leggi interne di quel mondo: quindi vi si presta completamente fede – almeno fintantoché si rimane là dentro”?
Noi, che ‘là dentro’ un po’ ci siamo stati, ci sentiamo di confessare onestamente, come fece Lewis dopo aver finito di leggere la versione definitiva di The Lord Of The Rings: “ci si rende conto subito che ci ha fatto un qualcosa; non siamo più le stesse persone”.
D’altra parte, visto che è giusto che sia Tolkien ad avere l’ultima parola, ci accommiateremo piuttosto nella più cordiale incertezza, concludendo con una filastrocca che JRR dedicò a critici e sostenitori:

“Il Signor Degli Anelli
è un affare di quelli
che, se l’ami, t’invischi:
se non l’ami – lo fischi!”


Ella de’ Mircovich,
Gennaio 2007

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