"Barbalbero": specie vegetali citate
Il seguente articolo fa parte della lettura critica del capitolo "Barbalbero" presentato in anteprima a Edoras 2006. Indice: il capitolo, il personaggio, indice delle specie vegetali citate e loro ricorrenza nel Signore degli Anelli, analisi delle specie vegetali citate, consigli di lettura.
Frassino (ash)
«Alcuni sembravano più o meno imparentati con Barbalbero… ma altri pareva appartenessero a stirpi del tutto estranee… Ent simili a frassini, alti, grigi ed eretti, con molte dita e lunghe gambe»
Il frassino è un albero maestoso ed elegnate, dal tronco dritto e slanciato che può raggiungere altezze comprese tra i 15 e i 40 metri. La sua corteccia è grigio-verdastra, liscia negli esemplari giovani diventa ruvida con il passare degli anni. I rami sono rivolti verso l’alto alcuni, altri verso il basso e questo conferisce alla chioma una forma arrotondata a forma di cupola. Le sue gemme sono nere e opache ed inizia a produrne raggiunti i 25 anni di età. Può vivere anche 300 anni.
Le foglie raggiungono i 20-30 cm di lunghezza, sono appuntite all’estremità e seghettate sui bordi. In autunno il loro colore è giallo-bruno.
Il frassino è simbolicamente l’albero per eccellenza: nell’Edda di Snorri Sturluson si narra del grandissimo frassino di nome Yggdrasill, che sorregge il mondo. La sua chioma è più alta del cielo e appoggia su tre grandi radici. La prima di queste radici arriva fino alla terra degli dei: sotto di essa vi sono una fonte e una bella sala dove risiedono tre fanciulle, le Norne, che si prendono cura dell’albero. La seconda radice è nella terra dei giganti della brina, dove si trova una fonte che dà la saggezza a chi ne beve l’acqua. La terza radice è in cielo, dove c’è il tribunale degli dei. Sul tronco dell’albero abitano un’aquila ed una serpe, acerrimi nemici, ed uno scoiattolo che si chiama Ratatoskr. Il frassino è fonte di saggezza e i popoli del nord utilizzavano i suoi rametti per comporre le lettere del loro alfabeto.
Secondo i Greci, il frassino era consacrato a Poseidone, dio del mare e dei terremoti, da cui l’affinità etimologica tra le parole latine fraxinus (frassino) e fragor (fragore); inoltre, secondo Esiodo la terza stirpe di uomini comparsi sulla terra, la cosiddetta stirpe di bronzo, era discesa dai frassini: questa stirpe era «spaventosa e violenta: a loro cari erano / le gesta funeste e i crimini di Ares». In questo caso, Esiodo accosta il frassino al bronzo perché erano entrambi simboli di potenza, di durezza.
Alcune popolazioni del centro Europa consideravano il frassino simbolo di rinascita e fonte di guarigioni miracolose, mentre nel medioevo si bruciava il suo legno in una stanza per allontanare gli spiriti maligni.
Curiosità: Deve il suo nome proprio alla sua caratteristica forma a cupola, in quanto in greco il termine “frasso” significa “chiudere, assiepare”, ma anche “difendere”. Può anche derivare dal latino fragor, schianto.
Betulla (birch)
«Gli Hobbit videro che stavano scendendo in un ampio vallo largo e profondo... L’interno era piano ed erboso, e gli unici alberi erano tre altissime e stupende betulle argentate che si ergevano in fondo alla conca.»
Quest’albero diffuso in Europa ed in Asia può raggiungere i 30 metri d’altezza con il suo tronco profondamente scanalato e la sua chioma stretta e conica, che si va arrotondando con il tempo. La corteccia è la sua caratteristica più riconoscibile. Quando è giovane è bruno-violacea, ma diventa poi bianco-rosata con gli anni per poi acquisire il suo caratteristico colore bianco punteggiato di nero. E’ molto liscia e sfogliata, mentre alla base è nera ruvida. Le foglie sono caduche, di forma triangolare e colore verde smeraldo. Predilige terreni sabbiosi e ricchi di torba. Ama il sole e cresce solitaria o a piccoli gruppetti nei boschi radi di collina e montagna anche se è poco longeva e raggiunge di rado i 100 anni. In primavera dalla sua linfa fermentata si ottengono liquori o aceto.
L'aspetto puro e delicato di questa pianta ha ispirato varie leggende, per non parlare della sua tenacia nell’insediarsi anche su terreni impervi. In Scandinavia era venerata come albero della rinascita, essendo la prima ad emettere foglie in primavera, mentre per i siberiani essa è l’Albero Cosmico. La sua linfa era usata come rimedio per svariati mali e la corteccia costituiva un alimento zuccherino per i popoli del Nord. Considerata dagli sciamani siberiani l’albero cosmico, è al centro di un episodio del Kalevala di Lönrot: Välnämöinen abbatte tutti gli alberi per fare un campo d’orzo e lascia solo la betulla come rifugio per gli uccelli; nel runo 44, con il legno della betulla si fabbrica una kantele dopo che la prima, costruita con la mascella di un luccio, è finita in mare.
Tolkien ha inoltre dedicato una poesia alla betulla ed il personaggio femminile chiave del capitolo “Barbalbero”, Fimbrethil, richiama proprio quell’albero.
Secondo alcuni studiosi, molti popoli del centro europa in epoca romana associavano la betulla al solstizio d’inverno, essendo la prima pianta a mettere le foglie insieme al sambuco.
«Fra salici e prati a Tasarinan passeggiavo in Primavera.
Ah! la vista e il profumo di Primavera a Nan–tasarion!»
Ah! la vista e il profumo di Primavera a Nan–tasarion!»
Il tronco del salice può raggiungere 1 m di diametro e cresce fino ad altezze di 15-20 m. La sua corteccia è grigio scura e presenta grosse scanalature longitudinali. L’ampia chioma è dovuta ai caratteristici rami arcuati che possono arrivare fino al terreno. Dato che ha bisogno di terreni ricchi di sali nutritivi e calcio per crescere, lo si trova prevalentemente in riva a fiumi e laghi e per questo è un importante elemento nel consolidamento del terreno che evita le frane in caso di alluvioni.
Il salice è una di quelle piante il cui significato simbolico in Europa ed in Estremo Oriente è diametralmente opposto: nel mondo mediterraneo, ad esempio, era convinzione comune che il salice perdesse i frutti prima della loro maturazione, ed era quindi simbolo di sterilità e castità. In Grecia, il salice era pertanto dedicato alle dee lunari come Era, Persefone, Circe e Ecate, personificazioni notturne e infere della luna. L’albero dava il nome al monte Elicona sul quale dimoravano le Muse, originariamente sacerdotesse della dea Luna, ed era il preferito di Circe, cui appendeva i cadaveri degli uomini da lei condotti alla morte. Oltre a Plinio, ne scrive in questo senso Omero nell’Odissea.
Nella cultura giudaico–cristiana, invece, il fatto che i rami del salice rimangano verdi anche dopo tagliati ha suggerito la leggenda che attingessero ad un’invisibile fonte che non si inaridisce mai, portando ad un’analogia con la Bibbia quale fonte inesauribile di sapienza.
Nell’Europa orientale, si è conservata fino a qualche decennio fa la festa primaverile del Verde Giorgio, santo che con il suo sconfiggere il drago è considerato simbolicamente colui che porta la primavera sconfiggendo le tenebre dell’inverno: tra gli zingari della Transilvania e della Romania, la festa veniva celebrata abbattendo un giovane salice e ripiantandolo nel terreno dopo averlo adornato, in modo che ai suoi piedi potessero essere deposti oggetti che l’albero, e il santo attraverso di esso, avrebbero benedetto durante la notte.
«Lunghi pendii ricoperti d'alberi s'innalzavano dall'orlo del vallo; al di là di essi si ergeva bianca ed acuminata sopra gli abeti la cima di un'alta montagna.»
L’abete è un albero sempreverde che può raggiungere altezze variabili dai 10m fino addirittura gli 80m. La chioma, di forma conico-piramidale, è costituita da aghi, o coni, inseriti nel ramo singolarmente, particolarità che lo distingue dalle altre conifere, dove i coni sono raggruppati.
Il tronco, dritto e colonnare, si distingue per la sua corteccia liscia e argentata, che negli esemplari più vecchi diventa rugosa e opaca.
L’abete vanta tradizioni che risalgono fino all’antico Egitto, non a caso la sua forma piramidale evocava le tombe dei faraoni. Spesso venivano costruiti in legno simulacri dell’abete, sui quali poi veniva sovrapposta una ruota solare e infilati dei bastoncini, ai quali si dava fuoco. Se il fuoco raggiungeva il simulacro, l’anno sarebbe stato propizio.
Secondo un antico mito greco, l’abete è legato alla ninfa Kaineídes, trasformata da Poseidone in un invincibile guerriero, poi re dei Lapiti, ed uccisa dai Centauri per ordine di Zeus a causa della sua superbia: dopo aver costretto la propria gente ad adorare una lancia di abete, Kaineídes viene ucciso sotto una pila di tronchi dello stesso legno, ricordando quello che probabilmente era un rito primaverile legato ai miti delle stagioni e della rinascita. Secondo popolazioni germaniche quali gli Altaici, l’abete è l’albero che spunta dall’ombelico della Terra, mentre secondo gli Ostíachi–Vasjugan la sua cima penetra nel cielo mentre le radici affondano negli inferi. Legato alla nascita del dio sin dalla mitologia Egizia, l’abete è stato poi assimilato dalla cultura giudaico–cristiana portando alla nascita dell’albero di Natale. I suoi aghi sempre verdi anche in inverno sono comunque sempre stati simbolo di rinascita e di fortuna.
«Alcuni [ent] sembravano più o meno imparentati con Barbalbero, e ricordavano i faggi o le querce…»
La quercia è un albero sempreverde che vive dai 500 ai 2000, dalla forma globosa ed espansa che raggiunge i 20m. Il tronco, eretto e robusto, è di colore verde scuro dalla corteccia rotta in piccole squame angolose. Il suo habitat naturale è la macchia mediterranea e preferisce terreni acidi. Può prosperare anche in boschi aridi ad altezze di 1800m sul livello del mare.
In molte mitologie, la quercia è simbolo di potenza ed è consacrata al dio maggiore: in Grecia era considerato l’albero in cui era stato allevato Zeus, nell’antica Roma era simbolo dei re e piantata al centro del Foro (è emblematico come, mancando il genitivo del termine vis (forza), esso sia sostituito dal sostantivo robur, roboris, quercia appunto); nella tradizione germanica era dedicata a Thor per un’associazione analoga. Non è un caso che nella Bibbia Javhé appaia per ben due volte ad Abramo presso una quercia (quella di Morè e quella di Mamrè).
Secondo alcuni miti del centro–Europa discendenti da miti greci, infine, le querce ospitavano due specie di ninfe, le driadi – che potevano allontanarsi dall’albero – e le amadriadi, che morivano con esso e lo proteggevano da ogni pericolo.
Curiosità: Il legno di quercia è molto pregiato, ma anche molto versatile: ci si ricava il carbone, se ridotto in cenere ci si conciavano pelli, la corteccia aveva proprietà farmacologiche e curava anche il morso dei serpenti. Grazie alle sue proprietà di resistenza all’acqua il legno di quercia viene usato anche per le travature subacquee, e grazie alla sua robustezza per traversine ferroviarie e pavimentazioni.
Olmo (elm)
«Nei boschi di olmi d'Ossiriand erravo d'Estate.
Ah! le luci ed i suoni d'Estate fra i Sette Fiumi di Ossir!»
Ah! le luci ed i suoni d'Estate fra i Sette Fiumi di Ossir!»
Albero originario del Caucaso e del bacino del Mediterraneo, l'olmo può raggiungere i 20m d’altezza. La sua chioma fitta, leggera ed elegante è sorretta da un tronco dalle molte ramificazioni dalla corteccia lucida e liscia. Quest’albero può anche, in spazi angusti, crescere come arbusto. In passato era utilizzato anche come tutore delle viti o per il rimboscamento di aree aride. Il suo legno è robusto e resiste all’acqua, ma non è un buon combustibile. E’ attaccato da una malattia fungina, la Grafiosi, dovuta ad un fungo, il Graphium ulmi, diffuso da coleotteri che vivono sotto la corteccia e che provocano la morte delle piante.
Gli antichi Greci avevano consacrato l’olmo a Morfeo, uno dei mille figli del Sonno. Il suo Ulmus somniorum (olmo dei sogni) è descritto da Virgilio nell’Averno della sua Eneide: «Nel mezzo spande i rami, decrepite braccia, / un cupo immenso olmo ove a torme albergano, / si dice, i fallaci sogni che alle foglie son sospesi». Il verso è stato successivamente ripreso da Francesco Petrarca, che scrive: «Un olmo v’è che ‘n fronde sogni piove / da ciascun canto, e che confusamente / di vero e di menzogna altrui ricopre».
Curiosità: le foglie e la corteccia dell’olmo contengono tannino, mucillagine, silice e potassio e sono cicatrizzanti, depurative, toniche e astringenti, tutt’ora usate per guarire ulcere ed eruzioni cutanee.
«Sino ai pini degli altipiani di Dorthonion salivo d'Inverno.
Ah! il vento e il bianco e il nero dei rami d'Inverno a Orod–na–Thòn!»
Ah! il vento e il bianco e il nero dei rami d'Inverno a Orod–na–Thòn!»
L’albero ha una caratteristica forma piramidale, dovuta alle impalcature dei rami che si vanno ad assottigliare in punta. Arriva ad altezze di 25m grazie ad un tronco dritto e spesso dalla corteccia grigia e fittamente rugosa caratterizzata da canali resiniferi. Le foglie, costituite da aghi, non si innestano direttamente nel ramo, ma sono raggruppate in “grappoli”. I semi, detti pinoli, sono racchiusi in una corazza legnosa, la pigna. Si distribuisce soprattutto nella fascia temperata-fredda dell’emisfero boreale sia a livello del mare, sia ad alte quote e su tutti i tipi di terreno, compresi quelli ghiacciati. Può vivere fino a 500 anni.
In Grecia il pino era consacrato a Rea, la Grande Madre, ma in seguito si consolidò il mito di Attis, il pino che moriva e resuscitava, portandolo ad essere un albero ambiguo, simbolo di morte ma anche di immortalità. Di morte perché se tagliato non riesce a ricrescere, ma di immortalità e resistenza per la sua straordinaria capacità di adattamento. Al pino è legato anche il mito della ninfa Pitis che chiese agli dei di essere trasformata in quell’albero per sfuggire al dio Pan che voleva violarla. Secondo un’altra versione, Pitis era contesa tra il dio Pan ed il vento del nord Borea: quando Pitis scelse il primo, il vento per vendicarsi soffiò contro di lei e la gettò giù da una rupe, ma la terra impietosita la trasformò nell’albero; il mito dice che, quando in autunno il vento soffia tra i boschi, la resina che stilla dalla corteccia della pianta sono lacrime della ninfa uccisa.
In Giappone il legno di pino è usato per costruire i templi shintoisti e strumenti rituali, in quanto simbolo di immortalità. Compariva anche fino a non molto tempo fa nel rito del matrimonio, come simbolo di costanza dell’amore coniugale.
«Molti di quegli alberi erano amici miei, creature che conoscevo da quando erano noci...»
Pianta dedicata ai culti matriarcali, il noce ha sempre avuto una doppia valenza di vita e di morte, ma anche di rigenerazione e abbondanza. È il caso del mito legato alla noce come simbolo sponsale: in Belgio le ragazze usavano divinare delle noci durante la festa di San Michele Arcangelo per sapere se si sarebbero sposate, mentre a Roma si usava gettare noci agli sposi. A questo filone è legata la fiaba dei fratelli Grimm in cui una ragazza nasconde tre bellissimi abiti in altrettante noci e li indossa in tre feste a corte, facendo innamorare di sé il re.
Curiosità: le radici del noce contengono un sostanza tossica in grado di far morire le altre piante nelle sue vicinanze.
Prugnolo (sloe)
«Ma le Entesse si occuparono delle piante più piccole, dei prati illuminati dal sole fuori dai margini delle foreste; videro le prugnole sugli alberi»
Grande arbusto, di un legno duro e resistente, il prugnolo può assumere le dimensioni di un alberello e forma macchie spinose impenetrabili. Il suo frutto è una varietà di susina e i fiori, che sbocciano su rametti spinosi, sono bianchi. Cresce spontaneo nei boschi, nelle siepi e sulle scarpate. La corteccia si stacca dai rami più giovani in autunno e nello stesso periodo si raccolgono i frutti, in primavera e all’inizio dell’inverno si raccolgono, invece, le foglie e i fiori. Il frutto può essere usato per marmellate e liquori, ottimo per impreziosire il gin.
In estremo oriente il pruno è considerato simbolo della primavera, del rinnovamento, della giovinezza, ed è persistente nella pittura. I suoi fiori candidi sono inoltre legati ai concetti di purezza e immortalità. In Cina, in particolare, è diffusa la leggenda che Laozi sia nato sotto un pruno.
Il prugnolo italiano, per le sue spine, ha tutt’altro significato, benché la sua caratteristica “gabbia” che protegge i nidi di molti uccelli l’ha spesso fatto associare al concetto di verginità reclusa, soprattutto in poesia.
Curiosità: il prugnolo (Prunus spinosa) è un pruno indigeno italiano che offre piccole susine dette prugnole; si tratta di un arbusto spinoso impenetrabile ai grandi predatori, al punto che molti piccoli uccelli lo scelgono per farvi il nido. Il prunus domestica, il comune susino, è invece frutto di un’ibridazione tra il prugnolo ed una specie orientale (si veda anche l'elenco delle specie).
«Quando trabocca il miele e si gonfia la mela, pur se vento soffia da occidente
Io resto qui, non torno a te, perché la mia terra è più attraente!»
Io resto qui, non torno a te, perché la mia terra è più attraente!»
Il melo presenta radici striscianti e poco profonde. E’ caratterizzato da una chioma espansa e da una corteccia liscia di color cenere. La notevole resistenza al freddo consente al melo un'area di diffusione assai vasta e la sua coltivazione può interessare anche le zone più settentrionali, giungendo finanche ai 1000 m. Predilige terreni senza ristagni idrici, sufficientemente dotati di humus, richiede inoltre una discreta quantità di calcio.
Famosissimo è il melo del giardino dell’Eden, il cui frutto diede origine al peccato originale ed assimilato a questa pianta non già dalle sacre scritture ma dall'iconografia successiva. Da questa tradizione discendono la nota fiaba di Biancaneve, stregata da una mela avvelenata, ed alcuni spunti romanzeschi come la mela mangiata dalla strega Jadis in Il nipote del mago, primo libro delle Cronache di Narnia di C.S. Lewis.
Il melo è presente in molte altre culture, come in quella greca, dove ornava il giardino delle Esperidi; o come in quella latina, i romani attribuivano infatti la mela a Diana (legando così nuovamente il frutto ad un problematico elemento femminile). Il melo e i suoi frutti erano diffusi nella mitica Avalon, terra di fate, dove era simbolo di immortalità. Artù venne infatti portato sull’Insula Pomorum di questa terra perché le fate ne curassero le ferite, e lo stesso nome, Avalon, discenderebbe da aval, che in gallese significa “isola delle mele”. Ancora nello stesso mito, Merlino vaticinava ai piedi di un melo e le fate usavano i suoi rami incantati per attirare i mortali nel loro mondo.
Nella cultura di alcune tribù galliche, il ramo con tre mele simboleggiava la regalità. Dalle mele ricavavano anche il sidro, bevanda alcolica con il potere di far entrare nel S’id, il mondo celeste.
Infine, nella tradizione trentina compare l’Uomo Melo, un folletto che esige l’ultima mela del raccolto per propiziare quello successivo.
«[videro] i ciliegi fiorire in primavera, l'erba verde crescete d'estate nelle terre irrigue, ed i semi germogliare nei campi in autunno.»
Originario dell'area compresa fra mar Caspio e mar Nero, il ciliegio era già conosciuto in Europa prima dei romani. Le prime notizie risalgono al IV sec. a.C. Lo sviluppo della coltura in Europa avviene nel XVI-XVII sec. soprattutto in Germania. Attualmente, il ciliegio è diffuso in tutti i paesi compresi fra i 40 e i 60 gradi di latitudine, anche in relazione al buon adattamento della specie alle diverse condizioni climatiche.
Nella Germania medievale, se un ragazzo soffriva di ernia lo si faceva passare in mezzo a un giovane ciliegio tagliato a metà longitudinalmente, poi si ricongiungeva la pianta e la si ricopriva di letame bovino per favorire la guarigione del tronco: la guarigione dell’ernia e della pianta sarebbero avvenute con la stessa velocità. Attualmente, sia in Germania che in Danimarca, è sopravvissuta la credenza che i demoni usassero i vecchi ciliegi come nascondigli, causando malattie e disgrazie a chi si avvicinasse: nella tradizione inglese, sognare ciliegi porta sfortuna.
«…erano ricoperti da fitte foglie scure e lucide come agrifoglio senza spine.»
L'agrifoglio è un arbusto sempreverde che raggiunge i 10m di altezza con foglie coriacee e spinose, lucide e cerose nella pagina superiore, opache su quella inferiore. I suoi fiori sono di colore grigio-perlaceo e sono molto profumati. I frutti sono bacche di colore rosso acceso.
Preferisce l’esposizione al sole in terreni dotati di un buon drenaggio argillosi e non calcarei. E’ molto sensibile a gelo e siccità e data la sua scarsa resistenza oggi è una specie protetta.
L’agrifoglio vanta molte leggende nei paesi nordici: una di queste narra di un bambino inciampato in una pianticella di agrifoglio che cadendo si ferì le mani e il suo sangue cadde sulle foglie dell’arbusto. Il bimbo invocò il re del bosco, che lo curò e trasformò il suo sangue nei frutti dell’agrifoglio.
I romani usavano regalare rami di agrifoglio agli sposi novelli come augurio. La credenza che piante di agrifoglio vicino alla propria abitazione tengano lontani i malefici è originaria proprio dell’antica Roma, presso cui era usanza portarne alcuni rametti come talismani durante i saturnalia.
I druidi invece lo consideravano una pianta sacra in grado di proteggere dalle gelate dell’inverno ed esisteva la credenza che lanciandone un ramo contro una bestia essa non avrebbe assalito, ammansendola. Veniva usato questo metodo anche per cercare di curare i cani rabbiosi.
Gli indiani d’America usavano i rami come fregio in combattimento, simbolo di coraggio, e li piantavano di fronte alle capanne per allontanare gli spiriti maligni. Da esso ricavavano anche una bevanda che dava forza, il matè, più ricca di caffeina del caffè stesso.
«Quando Primavera apre le foglie di faggio, e la linfa scorre nei rami;
Quando luce scintilla sul rapido torrente, e vento soffia sui colli lontani;
Quando è lungo il passo e profondo il respiro e pura l'aria di montagna,
Ritorna a me! Ritorna a me, e di' ch'è bella la mia campagna!»
Quando luce scintilla sul rapido torrente, e vento soffia sui colli lontani;
Quando è lungo il passo e profondo il respiro e pura l'aria di montagna,
Ritorna a me! Ritorna a me, e di' ch'è bella la mia campagna!»
Albero alto fino a 40 m, con chioma larga e cupolare, il faggio ha un tronco è diritto, cilindrico da giovane, largamente scanalato da vecchio; la scorza sottile si presenta caratteristicamente liscia e lucente, grigio chiaro. Il frutto, detto faggiola, è la versione non pungente del riccio del castagno. Predilige le zone a bassa escursione termica, dove l'estate è fresca e umida e l'inverno freddo ma non gelido. Il legno del faggio viene utilizzato per la fabbricazione di mobili, per arredamenti e oggetti ad uso domestico, per la sua facile lavorabilità e per il suo piacevole aspetto. Dalla distillazione secca del legno si ottiene il catrame. Dal seme essiccato e macinato si ottiene dell’olio, e la faggiola può essere utilizzata come surrogato del caffè.
E’ probabile che il faggio come il frassino sia stato considerato un albero cosmico: in Lorena e nelle Ardenne si credeva che non venisse mai colpito dal fulmine, mentre il colorarsi di rosso delle foglie del faggio simboleggiava il biasimo divino per un delitto che si era consumato in quei luoghi. La foresta di Verzy, in Francia, era famosa per i suoi faggi contorti e “mostruosi” e veniva considerata un bosco di streghe. In Bretagna, infine, si diceva che questi alberi ospitassero le anime che dovevano espiare una pena ed una leggenda narra del contadino Hervé Mingam che, uditi dei suoni attorno alla propria capanna, si avventurò all’esterno scoprendo il lamento dei suoi defunti genitori all’interno di due faggi. Nella leggenda è presente anche il tema dell’albero semovente, ripreso da Tolkien. Tra gli altri autori che hanno citato il faggio nelle loro opere è famoso Virgilio con il suo incipit delle Bucoliche: «Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi / silvestrem tenui Musam meditaris avena».
«[c’erano] Ent simili a castagni, bruni di pelle, dalle grandi mani con dita larghe e piatte e dalle piccole gambe tozze…»
Il castagno (Castanea sativa) è originario dell’Iran e si acclimata facilmente in ogni parte del continente europeo fatti salvi i terreni calcarei. Può raggiungere fino a 30 metri di altezza ed i 15 m di circonferenza, e vive oltre mille anni.
Nell’Antica Grecia il castagno era in qualche modo legato a Zeus, mentre i suoi frutti erano un elemento molto diffuso nella cucina romana: la loro importanza all’interno dell’alimentazione popolare, principalmente come sostituto della farina, divenne preponderante durante il Medioevo e venne studiata da trattatisti rinascimentali come Mattioli e Durante, che affiancarono ad osservazioni nutrizionali cenni su presunte proprietà del frutto come quella di essere afrodisiaco.
Tra i castagni più famosi figura il «castagno dei cento cavalli» sulle pendici dell’Etna, sotto il quale leggenda vuole che Giovanna d’Aragona si sia rifugiata da un temporale con l’intero seguito. È a questo albero, il cui tronco originario è bruciato nel 1923, che Giovanni Pascoli ha dedicato la poesia di Myricae in cui ne loda il legno ed i frutti che hanno sfamato e riscaldato generazioni di contadini.
Acero (maple)
«[c’erano] Ent simili […] ad aceri…»
Le varietà di acero coltivate come piante ornamentali, per l'elegante portamento e il fogliame variegato e vivamente colorato, nei giardini e nei viali sono l'A. negundo con foglie imparipennate e l'A. japonicum; mentre per la coltivazione in vaso su terrazzi sono da preferire le varietà e gli ibridi a sviluppo limitato dell'A. japonicum e dell'A. palmatum con foglie palmate più o meno profondamente incise dal colore giallo o rosso. Altre specie di acero vengono utilizzate nell'arboricoltura da legno e in silvicoltura per la produzione di legname, comprendendo specie spontanee o esotiche.
Greci e romani consideravano l’acero una pianta funesta, per via dell’intenso colore rosso assunto dalle sue foglie in autunno, e lo associavano al dio della paura Fobos, figlio di Ares. Nell’Europa orientale, invece, l’acero era una pianta benevola che allontanava i pipistrelli colpevoli, secondo la superstizione, di introdursi nelle case per succhiare il sangue dei bambini.
L’acero è molto utilizzato nella costruzione di strumenti musicali, primi fra tutti i violini secondo una tradizione iniziata nel XVII secolo da Antonio Stradivari: una leggenda ungherese narra di un acero sotto il quale una principessa venne sepolta dal proprio assassino e che, attraverso un flauto fatto con il legno dell’albero, denunciò il proprio carnefice. L’acero è anche il simbolo nazionale del Canada, in cui viene utilizzato per produrre uno zuccheroso sciroppo.
«[c’erano ent simili] a tigli… ma quando gli Ent, radunati tutt'intorno a Barbalbero, col capo leggermente chino, mormorando con le loro lente voci armoniose, guardarono a lungo e intensamente gli stranieri, gli Hobbit videro che appartenevano tutti alla stessa stirpe.»
Il tiglio è un grande albero che raggiunge anche i 40 metri di altezza, con la chioma di una bella forma a cupola. Il fusto è dritto e slanciato, dalla corteccia screpolata e di colore grigio scuro, mentre i rami sono di color cenere. Il tiglio nostrano e' originario dell'Europa e del Caucaso, ma lo troviamo dalla Spagna alla Russia, anche se allo stato spontaneo e' poco comune. I fiori sono giallognoli e molto profumati e possono vorticare nell’aria grazie ad una “brattea” fogliacea che fa da ala: in questo modo favoriscono la dispersione dei semi.
I fiori di tiglio hanno moltissime proprietà benefiche per l’organismo (emollienti, sedative, vasodilatatorie…) e per questo sono molto usati in ambito erboristico. Il suo nome deriva dal greco ptilon (latino: tilia) che significa ala. Ovidio racconta la storia di due vecchi coniugi, Filemone e Bauci, che chiesero a Zeus di unirli anche dopo la morte, ed egli li trasformò in quercia e tiglio, in modo che incrociassero per sempre i loro rami. Da qui la credenza che un ciondolo intrecciato con un ramo di tiglio e uno di quercia sia un amuleto d’amore.
Sigfrido, protagonista della Canzone dei Nibelunghi, uccise il drago Fafnir per bagnarsi nel suo sangue e divenire così immortale, ma durante questa operazione una foglia di tiglio in volo si andò a posare sulla schiena dell’eroe e di conseguenza quel punto rimase vulnerabile.
E’ anche considerato simbolo di fecondità e nume tutelare delle fattorie. In Sicilia, infine, si utilizzavano strisce della sua corteccia che arrotolate e srotolate sul dito predicevano il futuro.
Sorbo (rowan)
«Sul calar della notte li condusse alla sua ent–casa: nulla di più di una pietra muscosa sita ai piedi di una verde collinetta, in un prato circondato da sorbi.»
Il sorbo ha il suo habitat naturale nelle zone boschive e montuose del Nordeuropea, riuscendo a sopravvivere in qualsiasi tipo di terreno. Raggiunge altezze che superano i 20m con la sua chioma irregolare ed espansa. Il tronco è eretto e fittamente ramificato, con corteccia ruvida e bruna. Caratteristiche le foglie seghettate, i fiori bianchi che sbocciano a maggio e i frutti simili a mele, ma più piccoli e a grappolo. Quest'albero è detto anche farinaccio perchè nel passato, in tempi di carestia, i frutti seccati venivano ridotti in farina e mescolati al pane. Dai frutti si ricava una bevanda simile al sidro.
Era molto importante presso alcune popolazioni del centro Europa, che lo piantavano di fronte alle case per protezione, ritenendolo una manifestazione terrena dell’aldilà. Era ritenuto in grado di scacciare streghe e malefici, e i marinai attaccavano alle polene blocchi del suo legno per affrontare le tempeste. Venivano confezionati frustini per domare la corsa di cavalli stregati e se ne ricavava uno strumento chiamato «mano di strega» attraverso il quale, tramite un principio non lontano dalla rabdomanzia, si scoprivano i metalli. Anche in Scozia ed in Scandinavia veniva utilizzato per scacciare i demoni e gli stregoni, ritenuti la loro manifestazione in terra, e nell’antica Irlanda il suo legno veniva utilizzato per accendere fuochi propiziatori prima di una battaglia. Presso i finnici il sorbo era considerato l’albero della vita, abitato dalla ninfa Pihlajatar.
Felce (fern)
«A destra nella caverna c'era un grande letto basso, non più alto di un paio di piedi, ricoperto da una profonda coltre di erba secca e felci.»
Le felci delle regioni temperate sono costituite da un rigoglioso ciuffo di foglie, le fronde, che si dipartono da un gambo strisciante ancorato al terreno da fitte radici. Ogni fronda è composta da un asso centrale sul quale si innestano numerose piccole foglie ovalizzanti. A partire dalla preistoria le felci ebbero uno sviluppo tale da svilupparsi sull’intero pianeta e diventare la specie vegetale dominante in tutto il mondo. Oggi sono diffuse in tutte le regioni terrestri in una varietà di specie che supera il centinaio.
In Germania la Dryopteris filix–mas (felce maschio) è chiamata anche Walpurgiskraut per la sua connessione con le streghe: si credeva, infatti, che nella notte di Valpurga esse si servissero di questa pianta per rendersi invisibili.
La felce era famosissima nel Medioevo perché rientrava in quasi tutti i trattamenti erboristici con molteplici proprietà. La radice della felce veniva aggiunta ai filtri d’amore e le fronde venivano mangiate durante le avventure amorose per non far intervenire gli spiriti maligni; si credeva, inoltre, che i suoi semi fossero in grado di conferire l’invisibilità. Si dice inoltre che il rizoma di felce bruciato o posto vicino all’orecchio durante il sonno doni chiaroveggenza e sogni profetici e che regali fecondità alle donne che hanno difficoltà a procreare.
«...alberi scuri e sempreverdi dall'aspetto impenetrabile; piante di una specie ignota agli Hobbit. I rami partivano dalle radici, ed erano ricoperti da fitte foglie scure e lucide come agrifoglio senza spine; su steli rigidi e tesi brillavano molti boccioli color oliva.»
Tra le altre specie nominate nel capitolo, particolare importanza ha il grano, nominato insieme agli alberi da frutto in relazione alle entesse e legato in molte mitologie all’elemento femminile come simbolo di fertilità ed in relazione alla raccolta (contrapposta alla caccia, prerogativa maschile). Vengono nominate anche altre erbe quali la gramigna («In alto, quasi al livello delle cime degli alberi, un ripiano sovrastato da una rupe a picco. Non vi cresceva altro che un po' d'erba e di gramigna sui bordi, e un vecchio ceppo d'albero con due solitari rami contorti: sembrava quasi l'immagine di un vecchietto nodoso abbagliato dalla luce del mattino.») e si parla di muschi e licheni, in relazione alla straordinaria antichità della foresta.
Un’altra specie citata è un albero scuro e sempreverde che potrebbe assomigliare all’alloro, ma che Tolkien osserva con gli occhi degli hobbit (cui è ignoto). Tentare di indovinare di che specie si tratti sarebbe inutile e fuori luogo, facendo perdere di vista l’aspetto centrale del passaggio ovvero l’espediente narrativo tramite il quale Tolkien presenta al lettore uno habitat assai diverso dalla Contea, e quindi assai lontano da quella sorta di Inghilterra che era familiare sia agli hobbit che al lettore.
Testi di Samuele "Elderion"
Citazioni dal capitolo "Barbalbero" del Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien
Illustrazioni dal "Koelher" (Medicinal Plantzen)
Citazioni dal capitolo "Barbalbero" del Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien
Illustrazioni dal "Koelher" (Medicinal Plantzen)
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