Decisamente fuori tempo massimo, e dopo che altri hanno già confezionato resoconti accurati e particolareggiati, la rappresentanza bolgerica a
Vallombrosa (
i.e.: io & Tafkal) riesce a riprendere le fila della propria vita (ma quando mai...) e a spiccicare un'ombra di resoconto. Innanzitutto, per sgombrare il campo da equivoci, qualche pòrecisazione:
- il seguente resoconto è esclusivamente di Shelidon: il resto dello smial, Tafkal compreso, non è da ritenere responsabile o compartecipe delle opinioni ivi espresse;
- è stata la pòiù bella manifestazione dai tempi... boh, dai tempi dell'invenzione della ruota o della scoperta del fuoco, probabilmente.
Procediamo con ordine. O almeno proviamoci.
La prima versione del resoconto, arenatasi più o meno a pagina due, si soffermava nel dettaglio sul contenuto delle conferenze. I prodi Soffiatromba mi hanno fortunatamente sollevata dall'onere di raccontare nel dettaglio il contenuto delle stesse pubblicando le registrazioni on-line. Invito ad ascoltarle, perché non una non è meritevole del vostro tempo. Ecco ciò che i fortunati bolgeri videro ed ascoltarono.
Sabato 30 giugno- ore 10:00, Sala capitolare – Saluto delle autorità
Il saluto delle autorità alle autorità si è svolto nel suggestivo contesto della sala capitolare, alle cui pareti sono appesi gli inquietanti tondi di Vittorino Venturi su cui si è dissertato con Isildril e Rex, giungendo all’importante conclusione che si trattasse di:
- il Cristo di South Park;
- una suora a lui affine;
- un mistico scaffale di
bottiglie fiaschi; - un piccione della Pace;
- il Papa che appare ad alcuni angeli, chiara metafora del potere temporale che rovescia l’autorità del Cielo sovrapponendo il Dogma al Verbo;
- la resurrezione di Lazzaro in calzoncini e maglietta, schiaffo alle ricche raffigurazioni dell’arte tradizionale;
- un Dio il cui terzo occhio, chiaro riferimento all’induismo, indica l’ecumenicità al di là di ogni suddivisione di razza e credo;
- il pozzo e il cesto, un omaggio a E.A. Poe e alla letteratura profana, sempre ispirata da Colui Che Tutto Crea;
- la biblica acqua che sgorga dalla roccia;
- uno dei diavoletti di “A Nightmare Before Christmas” che fugge dalla luce, dura critica al cinema americano;
- la serpe sotto spirito, tanto importante per il sostentamento psicofisico dei popoli di montagna;
- Tarzan ingarbugliato tra le sue stesse liane, indice di come anche il più audace degli uomini non sia nulla senza la Grazia;
- l’asino-drago, figura mitica alla base della cultura locale.
Queste dissertazioni biblico-artistiche sarebbero poi state corrette con ferma mano patena dall’Abate, ma questa è un’altra storia.
Apre il saluto alle autorità un
Giacomo Bencistà ormai incallito oratore, rotto ad ogni esperienza dopo le conferenze stampa per promuovere l’evento nonché portavoce ufficiale degli organizzatori presso la struttura ecclesiastica ospite, e introduce proprio il padre Abate che, dopo aver speso due parole sulla struttura in cui ci si trova, ringrazia gli organizzatori perché prima di quella mattina non conosceva la
Società Tolkieniana Italiana. Il pio uomo dovrebbe sapere come invece possa essere virtuosa la condizione di ignoranza. Rimasto vittima delle spiegazioni di Fritz, l’Abate pensa di trovarsi di fronte ad un gruppo di studio intriso di valori cristiani ed ecologismo e si lascia andare ad incauti raffronti con l’ordine monastico dei benedettini, per la cui forte presenza sul luogo (e forse eccessivamente suggestionati da letture come
Il nome della rosa) si aveva già avuto modo di temere per il francescano padre Spirito. Quali Entesse, anche se questo l’abate non lo poteva sapere, i benedettini infatti non scelgono per sé luoghi splendidi come spesso viene detto, ma rendono meravigliosi i luoghi in cui si stanziano cosa che, se storicamente può essere considerata piuttosto veritiera, appare un po’ immodesta e su cui forse ordini monastici maggiormente amanti della natura selvaggia avrebbero di che ridire.
Come back to me, and say my land is fair!“Io vorrei che questa associazione – conclude il padre Abate – si ponesse come primo obiettivo quello di proclamare la presenza di Dio nella natura”. Nasce così, per volontà dell’abate di Vallombrosa, la S.T.T. (Società Teosofica Tolkieniana).
Ci risveglia da visioni apocalittiche
Paolo Guerra, assessore all’ambiente del
comune di Reggello, con alcune banalità di circostanza e qualche auspicio che l’anno prossimo l’iniziativa venga ripetuta. Viene poi appena salutata la dottoressa
Cristina Clerici della
pro-loco (chiaro esempio di saluto delle autorità alle autorità), e infine il
dottor Bartolini della
guardia forestale chiude con una sperticata e non esagerata apologia del luogo, della sua importanza e della sua storia.
Chiude la sequenza di autorità salutanti
Domenico Dimichino, presidente della
Società Tolkieniana Italiana che sulla carta organizza l’evento. Ringrazia quindi i “ragazzi” che operativamente hanno reso possibile l’evento (non spostatori di scatoloni, ma ideatori, coordinatori, supervisori, allestitori, curatori e signori dell’evento
n.d.sh.) ovvero - come da sue parole - Gioia e Corso, Sandra e Stefano, Giacomo, Letizia e Rex (
quiz: trova l’intruso). La gioia del presidente è palpabile: molti si rivolgono alla S.T.I. presentando bellissime idee e poi scompaiono (davvero strano da parte loro), mentre questi sei indomiti hanno perseverato, nonostante più di una volta abbia dovuto sgridarli quale padre che corregge dei figli che hanno perduto la retta via. Chiude infine ringraziando tutte le autorità che hanno consentito lo svolgersi di questo lieto evento, tra cui la pro loco, il comune e le autorità del bosco (non sapevamo che anche il
re degli gnomi avesse dato il suo patrocinio).
Riprende quindi la parola l’abate, probabilmente dopo aver sentito le nostre farneticazioni sui tondi di Venturi, e si fa un punto di missione didattica informarci che si tratta di episodi della vita di San Benedetto. Eppure non ci eravamo andati troppo lontano.
- ore 15:00, sala capitolare – Gugliemo Spirito, Parlare con gli animali. Un desiderio al cuore di Feeria
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Un professionalissimo
Simone Petralli introduce la prima conferenza del ciclo, riproposizione italiana della conferenza “Speaking with animals: a ‘desire’ that lies near the heart of Faerie” tenuta da
padre Spirito a
Jena.
Innanzitutto, la conferenza è stata un consistente adattamento di quella di Jena: il convegno, infatti, verteva sulle opere minori di Tolkien, laddove la presenza di animali è sensibilmente diversa rispetto allo
Hobbit e al
Signore degli Anelli, con predominanza di
draghi e pochi animali significativi, a parte il
cane Gorm e gli animali che
Tom Bombadil incontra andando in barca.
Padre Spirito inizia ricordando la
scoperta dell’eco, da ragazzo, come un segno di risposta alla ricerca di corrispondenze tra l’infinito esteriore e l’infinito interiore, un istante in cui al profondo desiderio di comunicare con la natura il paesaggio risponde con voce propria: la capacità di comunicare degli animali, senza arrivare al mistero dell’eco, è spesso semplice ma in grado di smuovere corde profonde, esprimendo corrispondenze con i più intimi sentimenti dell’animo umano. Si ricordi a questo proposito l’aneddoto secondo il quale
Nietzsche, passeggiando per la città poco prima del suo ultimo tracollo nervoso, avrebbe ritrovato negli occhi di un cavallo una solitudine così corrispondente alla propria da attraversare la strada e andare ad abbracciarlo.
La
ricerca di una corrispondenza, il desiderio di costruire un ponte con la natura e di ricomporre la capacità di comunicazione con gli animali, sono profondamente radicati nell’animo umano, cui si unisce la necessità di ristupirsi di fronte al quotidiano, di provare meraviglia di fronte al consueto, come
Gabriel Garcia Márquez che dichiarava di conoscere la moglie da così tanto tempo da non sapere affatto chi fosse.
Oltre a questo desiderio profondo, quasi atavico, di comunicazione, c’è da aggiungere che il mondo animale è spesso stato usato per raccontare qualcosa sull’uomo, addirittura connota l’essenza dell’uomo per negazione (l’uomo si definisce come un “non animale”, benché alle volte si abusi del contrario affermando che un comportamento umano particolarmente crudele è “bestiale”, per lo più facendo torto alle bestie). In particolare, la letteratura inglese ha una lunga tradizione di storie che hanno come protagonisti
animali parlanti, e uno degli ultimi tasselli di questa tradizione è sicuramente
C.S. Lewis con i suoi animali umanizzati, sia in
Le cronache di Narnia che in
Sorpreso dalla gioia. Questa tradizione tuttavia ha poco a che fare con Tolkien, che nel saggio “Sulle fiabe” prende le distanze da essa, affermandone chiaramente l’estraneità a Feria: essa infatti è una realtà non addomesticabile, laddove invece l’umanizzare gli animali sottende ad un più o meno inconfessato desiderio di vederli come l’uomo. Nell’opera di Tolkien non si trovano animali umanizzati, con pochissime eccezioni: gli animali di
Beorn nello
Hobbit [1], la volpe che incontra gli hobbit all’inizio del
Signore degli anelli [2], di cui il narratore riporta i pensieri. In entrambi i casi, l’utilizzo di questi elementi è giustificabile rispetto al tono del romanzo o della parte di romanzo in cui ci si trova:
Lo Hobbit è infatti un’opera per ragazzi con molte peculiarità stilistiche di cui Tolkien stesso si rammarica, mentre il passo del
Signore degli Anelli risente ancora del tono di inizio romanzo che se da una parte vuole rendersi familiare al lettore dall’altra si sta staccando dallo
Hobbit e dalla familiarità della Contea. A questa spiegazione fornita da padre Spirito, aggiungerei una nota: nella sua corrispondenza con l' editore riguardo all'illustratore Horus Engels, Tolkien ebbe modo di lamentarsi dell'eccessiva umanizzazione attribuita agli animali di Beorn: è possibile quindi che l'immagine vada oltre le intenzionio dell'autore e che Tolkien intendesse non già accentuare il lato umano degli animali quanto quello vicino alla natura di Beorn?
In ogni caso, non si tratta comunque di elementi fondamentali per lo svolgersi della trama e nessun animale è mai caricato di valenza simbolica o allegorica, al contrario delle
Cronache di Narnia in cui il leone non ha valenza come leone, ma come allegoria di Cristo. Allo stesso modo non interessa a Tolkien la tradizione degli
uomini trasformati in animali, come accade spesso nelle fiabe dei
fratelli Grimm (coinvolgendo ad esempio animali come il
cigno). A Tolkien non interessa infatti raffigurare animali addomesticati che si esprimano come uomini, ma dà voce a quel profondo desiderio di cui si parlava prima, desidera comunicare con gli altri esseri viventi nel loro linguaggio, instaurare con loro un’intimità che rispetti l’alterità. A questo fa riferimento quel passo di “Sulle fiabe” in cui Tolkien rimarca l’importanza di lavare le finestre per vedere le cose come eravamo destinati a vederle, perseguendo la conoscenza dell’altro con umiltà o semplicemente senza desiderio di possessività. Contro l’ossessione del possesso infatti Tolkien mette in guardia più volte, sia nel
Signore degli anelli che nel
Silmarillion: la possessività determina l'incapacità di stupirsi dell'alterità.
Piuttosto che il possesso, quindi, vicino allo scopo di Feeria è imparare a comunicare con gli animali nel loro idioma: imparre il linguaggio degli animali, degli uccelli e persino degli alberi è molto più vicino al cuore di Feeria. Ma Tolkien va ancora oltre: vicino al cuo9re di Feeria non è il conseguimento di questo straordinario dono, ma il sentimento della desiderabilità. La fiaba, quindi, ha successo se riesce a risvegliare un desiderio, fermandosi senza raggiungere la possibilità: è irrilevante la possibilità che ciò accada nel mondo primario. Una delle funzioni della letteratura è togliere la pòatina che soffoca i desideri profondi che donano la capacità dello stupore di fronte al reale. In questo senso, conversare con gli altri esseri viventi e capire il loro linguaggio è un desiderio antico, come se si percepisse di essere stati separati, privati di un dono che un tempo si possedeva.
Strumento per suscitare questi sentimenti virtuosi nel lettore, il hnarratore si pone spesso come colui che possiede questi doni, che ha percorso i sentieri che intende rendere desiderabili al lettore. Questo atteggiamento particolare si fond con il concetto ermeneutico di "mondo davanti al testo", e la contaminazione tra il testo e l'esperienza personale del lettore, che va ad arricchire l'opera letteraria, innesca il meccanismo di cui si parlava. La grande letteratura, e Tolkien in particolare, quasi non consente un'analisi neutrale del testo, ma chiama con forza in causa l'esperienza personale, mettendo in questione i più intimi approcci del lettore con il reale e colstringendolo a confrontarsi con la sanità dei suoi approcci.
Entrando nel dettaglio dell'opera tolkieniana, padre Spirito ha trattato alcuni esempi di comunicazione profonda con gli animali nell'opera tolkieniana, sottolineando la varietà di componenti che l'autore riesce a individuare. Tornando alle opere minori, persino il cane parlante del
Cacciatore di Draghi si esprime e si rapporta in un modo così naturale e "canino" da consentire di interpretare il suo comportamento come filtrato dagli occhi di Giles e della moglie, abituati a decodificarne l'atteggiamento: gli animali incontrati da Tom Bombadil inoltre sono un omaggio alla lunga tradizione che questi animali (tassi, cigni, ...) hanno nella letteratura e nel folklore inglese, e quindi hanno un intento differente. D'altro canto, nel
Signore degli Anelli Gandalf che parla con Shadowfax va assai vicino alla reale possibilità di comunicare con questi animali, per il modo in cui viene posto: anche questo, nonostante si mantenga nel campo del desiderio, fa parte del realismo di Tolkien. Lasciandosi accompagnare dalla sua opera, e passando per opere come quelle di Konrad Lorenz, si riesce a raggiungere la consapevolezza che una comunicazione profonda con gli animali è concreta, possibile. Il riflesso tra mondo secondario e mondo primario costituisce uno dei maggiori fascini dell'opera di Tolkien, e la rivelazione della possibilità di concretizzare un desiderio è senz'altro una delle forme dell'eucatastrofe.
Nonostante alcune oscillazioni sul confine tra la letteratura e l'esperienza mistica personale, una conferenza su altissimi livelli come sempre, seguita da un
question time altrettanto interessante (ma ora non ho i miei appunti: farò un
edit magari domani riguardo a questo).
10 e lode.
Note[1] «[...] quattro bei pony bianchi, e parecchi cani grigi, forti e slanciati[...] presto tornarono portando in bocca alcune torce, che accesero sul fuoco e fissarono a certi sostegni bassi sui pilastri, al centro della sala. Quando volevano, i cani potevano rizzarsi sulle zampe posteriori e portare qualsiasi cosa con quelle anteriori. [...]. Poi [...] entrarono alcune pecore bianche [...] guidate da un grosso montone [...]. Una reggeva una tovaglia bianca con figure d'animali ricamate sul bordo; altre reggevano sulla larga schiena dei vassoi con fondine, piatti da portata, coltelli e cucchiai di legno, che i cani presero e disposero velocemente sulle tavole rustiche. [...] Sui lati, un pony spinse due sgabelletti con un largo fondo di vimini e piccole gambe tozze per Gandalf e Thorin, mentre a capotavola mise la grossa sedia nera di Beorn, fatta allo stesso modo (su cui egli sedeva colle gambone allungate sotto un bel tratto di tavola). [...] Gli altri pony entrarono facendo rotolare dei tronchetti, piallati e lucidati.» (J.R.R. Tolkien, “
Lo Hobbit, Cap 8: “Strani alloggi”)
[2] «Una volpe, che attraversava il bosco per affari suoi personali, si arrestò qualche minuto ad annusare. «Hobbit!», pensò. «Incredibile! Avevo sentito dire che avvenivano strane cose in questo paese, ma trovare addirittura degli Hobbit che dormono all'aria aperta sotto un albero! E sono in tre! C'è sotto qualcosa di molto strano». Aveva perfettamente ragione, ma non riuscì mai a scoprire che cosa.» (J.R.R. Tolkien,
Il Signore degli Anelli, Libro II – Cap III: “In tre si è in compagnia”)
- ore 17:00, sala capitolare – Saverio Simonelli, “Le storie camminano davanti ai nostri occhi”. Parola e racconto come fondamento ed elemento naturale dell’universo tolkieniano
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Introdotto sempre da
Simone Petralli, un itervento un po' pesante e al di là dei miei interessi (e, probabilmente, dei miei livelli di conoscenza), ma sicuramente interessante e ricco di spunti.
Difficile riassumere il contenuto dell'intervento senza entrare nel dettaglio: riallacciandosi al question time della conferenza precedente, Simonelli esordisce ricordando la relazione tra la figura di Gandalf in sella a Gwahir e l'episodio delle
Canterbury Tales, in cui un'aquila parla della personificazione delle storie e si addentra in una straolrdinaria lezione di semantica sulla differenza tra
significante e
significato. L'opera di Tolkien, come sottolineato anche da Shippey, si concentra infatti non sulla somiglianza ma sulla
connaturalità tra l'uomo e lo scritto: Tolkien, come testimoniato dalle lettere, riversa nella sua opera il proprio cuore e la propria passione per le parole, la sua scrittura è un fenomeno naturale, nato sulla scia emozionale da un profondo amore per la cultura e per le tradizioni letterarie che amava e che vedeva come frammenti all'origine di quel
corpus mitologico che desiderava creare per il suo paese. Sulla scia di
Alfredo il Grande, Tolkien vede la scrittura come un'attività naturale da condividere, con quella che definiremmo una profonda connotazione sociale (e che assume senso anche alla luce di alcuni passi di
Foglia di Niggle, in cui l'autobiografico pittore si cruccia per non riuscire a comunicare ai suoi compaesani la profondità della sua ricerca). Oltre a questo, Tolkien si pone sulla scia del
Beowulf concependo la parola non come idea, ma come azione: ogni parola agli occhi del filologo è uno scrigno di storie, un oggetto con una propria storia da raccontare, un'ente evocatrice potente.
Alla luce di questo, si giustificano numerosi aspeti della complessa opera tolkieniana, non ultima la presenza di
forme testuali diverse dalla prosa, quelle poesie e canzoni che Lewis tanto deprecava e che Tolkien inserisce con un'idea performativa del testo, una sorta di "freccia semantica" che sottolinea un mo9mento particolarmente importante: a volte la poesia assume una funzione esorcistica (si veda il racconto di Aragorn a Colle Vento), a volte introduce nella mitologia alta quella mitologia bassa che Tolkien amava raccontare (si vedano le parti riguardanti Tom Bombadil, che sappiamo essere un personaggio dei racconti di Tolkien ai suoi figli).
Nella creazione di queste parti in poesia, Tolkien non rinuncia a raccontare qualcosa sulle sue fonti: come i cantori dell'
Edda che, andando avanti nel tempo, tendevano a ricollegarsi sempre ad una tradizione passata per darsi autorevolezza, Tolkien introduce un passo interessante durante il salone del fuoco alla casa di Elrond, in cui un Bilbo cantore di poesie con forti connotazioni autobiografiche ripercorre i passi proprio di quei cantori (indicati, nel mondo secondario, come i poeti elfici).
Numerosi sono gli esempi del
Signore degli Anelli in cui le
parole diventano protagoniste. Si veda ad esempio il passo in cui Aragorn chiede dell'
athelas: il re non si limita a spiegare il significato numenoreano della parola, ma egli stesso è quella parola, un'etimologia vivente, la realtà che concretizza la profezia su cui si basa l'origine della parola stessa. La parola quindi non come gioco letterario, ma come costruzione complessa al servizio dell'intreccio, come chiave e fulcro dell'intreccio stesso. Un altro esempio di questa intima consistenza della parola è il rapporto tra corruzione della luce e corruzione del linguagio, espresso da
Verlyn Flieger nel recentemente tradotto
Schegge di Luce: con buona pace di chi ha sostenuto che Tolkien abbia operato su basi xenofobe per costruire un jmondo di impostazione manichea, basta concentrarsi sulla corruzione del linguaggio orchesco, non un idioma a sé ma - come dimostrano gli spezzoni di linguaggio oscuro - una corruzione dei linguaggi elfici, melodia di consonanti liquide, attraverso il linguaggio degli uomini composto da consonanti più terrigne, fino ai linguaggi primitivi costituiti quasi esclusivamente da consonanti gutturali, cupe, depauperate della musica che d'altronde, secondo Tolkien, è la voce dei Valar nel creato. Infine, a ulteriore supporto di questa tesi viene in soccorso lò'idea di Tolkien del fantastico: sulla scia di
Todorov e di
Coleridge, Tolkien fonda la propria creazione sulla sospenzsione dell'incredulità e sul concetto medievale del realismo fantastico. La sua opera diviene quindi la presentazione di un'esperienza umana al di là del mondo primario, ma reale e realistica in se stessa: su queste basi, la concretezza e la verosimigloianza del linguaggio è elemento primario e fondante, e ciò che distingue Tolkien da molti autori successivi che hanno tentato di raccoglierne l'eredità.
Interessanti anche le note su una possibile contaminazione della visione tolkieniana della parola con quella di Sant'
Ignazio di Loyola, attraverso il personaggio di un gesuita suo amico, e l'accenno a
George MacDonald, il primo a parlare delle fiabe come di tessere di un mosaico più vasto, e
Chesterton.
Fuori tema rispetto alla manifestazione, se non in un senso di natura più ampio, ma comunque meritevole.
9, ma solo a causa della mia ignoranza.Domenica 1 luglio- ore 10:00, sala capitolare – Oriana Palusci, Ents, Ents, Ents
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La dottoressa Palusci inizia il suo intervento con una rievocazione di un'esperienza londinese del 1980, durante la stesura del suo libro (che, come giustamente sottolineato da Ered Luin nella pòresentazione, è insieme a quello della d.ssa Lodigiani la prima opera a tutto tondo su Tolkien in Italia): mentre si iniziava a parlare di ecologismo, la relatrice sperimentava durante un meeting tolkieniano un grand desiderio di condivisione e di comunicazione con la natura. Come ci indicano gli aneddoti legati a Tolkien e all'automobile e quelli legati alle sue frequenti passeggiate, anche Tolkien era vicino a questi sentimenti, molto legato ad un concetto di
condivisione con la natura distante da quello dell'escursionista o del botanico, ma da semplice estimatore (un rapporto simile a quello che l'autore aveva con il disegno). A questo proposito, trovo che il rapporto tra Tolkien e l'automobile sia stato eccessivamente semplificato e fosse meno drammatico e più ironico di quanto si possa essere portati a credere.
In ogni caso, la grande importanza della natura nel processo creativo tolkieniano è testimoniata non solo da
Foglia di Niggle, chiaro parallelismo tra la creazione di un intreccio narrativo e il disegno di un albero, ma anche dalla grande presenza di folreste nel
legendarium, tratteggiate con attenzione, dedizione e non poca competenza botanica nella nomenclatura e descrizione. A seconda della natura degloi alberi, egli arriva a caratterizzarli come veri e propri personaggi (si veda il vecchio Uomo Salice) pur senza far loro perdere la connotazione eminentemente arborea. E' come se Tolkien, attraverso la Terra di Mezzo, creasse un proprio erbario, intriso di esperienze autobiografiche e di riflessi con il mondo primario. La grande profondità del ruolo degli alberi è, insieme a ciò che è già stato indicato dai precedenti relatori, è uno degli elementi che dà profondità alla subcreazione: gli alberi sono testimoni storici del grande affresco della Terra di Mezzo, testimoni che stanno perdendo la battaglia contro la tecnologia di Saruman.
Il registro linguistico, l'alternanza tra tragedia e commedia, delinea il rapporto degli alberi con il resto dei personaggi, e in particolare con i piccoli hobbit: gli alberi quindi reagiscono in modo diverso all'irruzione della trama nelle loro vite. Nella
Old Forest, ad esempio, gli alberi sono ostili come Old Man Willow, che si comporta proprio come un vecchio corrotto che ha compiuto delle scelte verso il male e che si tormenta nel ricordo di una passata grandezza ora perduta. In questo grande affresco, lo stesso Tom Bombadil, così come Baccador, è intriso di connotazioni vegetali, che lo rendono il naturale master della foresta.
Anche
Lothlorien e gli elfi sono strettamente correlati, l'una lo specchio degli altri: gli alberi non sono sempreverdi, ma sempre in vita, seguono altre stagioni e altri cicli vitali, effettuando una sorta di fotosintesi al rovescio. Invece di sintetizzare sostanze organiche grazie alla luce, pare che le foglie assorbano i raggi del sole restituendoli. Il Bosco d'Oro, formato da mallorn (plurale irregolare), è introdotto per tappe, dato che persino l'elfo Legolas ne ha una conoscenza indiretta attraverso i canti ed i miti. L'avvicinamento progressivo naturalmente è finalizzato all'aumento dello stupore ed è speculare all'avvicinamento ai galadhrim, il popolo degli alberi.
Infine, nel libro III, viene introdotta la
Foresta di Fangorn e si presentano gli Ent, concretizzazione stessa dell'alterità dell'albero. Gli Ent rappresentano il lontano passato, custodiscono quella profondità storica che tanto interessava a Tolkien nella sua creazione, e sono intrisi di un modo diverso di concepire il tempo, la natura, la vita. Un modo che, Tolkien ne è tristemente consapevole attraverso il proprio
alter-ego Barbalbero, sta scomparendo sia dal mondo secondario che dal mondo primario in cui l'autore viveva. Filologia, letteratura e vita è la pozione aqrtistica che dà origine a questi personaggi chiave, gli Ent, la cui nascita nella propria mente Tolkien stesso non sa definire al punto da desiderare di prenderne le distanze affermando che non hanno nulla a che vedere con se stesso e che, forse, provengono dal suo subconscio. L'assenza di fonti e, insieme, i numerosi elementi autobiografici presenti in Treebeard, spinge a individuare negli Ent, piuttosto, come un parto profondo dello spirito tolkieniano.
Interessante l'analisi dettagliata del passo dell'
incontro tra Barbalbero e gli hobbit, con le varie fasi del dramma, della commedia, del riconoscimento (non scevro di riferimenti al "who are you" del Brucaliffo di Lewis Carrol), della rievocazione storico-scientifica, della celebrazione del nome come custode di una storia, della confessione riguardo al fallito rapporto con le Entesse. Non poteva mancare inoltre il riferimento all'ormai acclarata origine della marcia degli Ent nel
Macbeth di Shakespeare.
Colpevole forse di una certa approssimazione in alcune contrapposizioni.
9, ma solo per alcuni limiti congeniti al tipo di esposizione.- ore 11:00, sala capitolare – Carlo Pagetti, Paesaggi tolkieniani: dall’Eden rurale alla terra desolata
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Difficile stabilire quale sia stata la migliore tra le conferenze, ma se dovessi sceglierne una (rigorosamente sotto minaccia di pene corporali), penso che opterei per questa, dato l'argomento quasi inedito nel deprimente panorama italiano. Brillante, spiritoso, ammaliante, approfondito, interessantissimo.
Iniziando con il sottolineare l'importanza di mantenere un punto di vista esclusivamente letterario sull'opera tolkieniana, Pagetti inizia con il collocare Tolkien nel canone letterario del '900. Difficile tenere il passo con i molti concetti ed i molti passaggi espressi in questa meravigliosa conferenza: dalla stretta relazione tra l'opera di Tolkien e l'esperienza della Seconda Guerra Mondiale all'affermazione dell'autore stesso che definì la sua opera come "una grande allegoria del nostro tempo", ciò che Pagetti intende portare avanti è una dimostrazione della profonda modernità di Tolkien (tesi con cui non mi trovo d'accordo, io sto con i tardo-romantici). Accanto alle gesta eroiche e allo high romance che Tolkien intende costruire, che sembra scontrarsi con la visione modernista, Pagetti ricorda la rivalutazione del mito fatta da
Yates e
Joyce,
Auden e
Welles, che è tipica del modernismo, e inserisce il lavoro tolkieniano in questo solco, nonostante il suo rifiuto della tradizione arturiana e l'assenza di parodia e distorsione che invece è tipica del modernismo. Ma i motivi principali che portano ad accomunare Tolkien al modernismo, oltre all'utilizzo del tessuto mitico in contrapposizione al caos moderno, sono anche altri. La teoria stessa della subcreazione, che giustifica un certo
antinaturalismo, è molto vicina al modernismo, che per sua natura rifiuta la possibilità di interpretare il mondo moderno con la letteratura, di calarvi la realtà sperando di decodificarla: esse3ndo al letteratura una costruzione artificiale, diventa fondamentale per il modernismo l'
intertestualità, caratteristica fondante dell'opera tolkieniana cui si accosta la
Waste Land di Elliot. Altro elemento profondamente modernista dell'opera tolkieniana, in contrapposizione all'approccio romantico, è il
rifiuto di ogni esplicita autobiograficità: l'autore modernista, proprio come Tolkien nel
Signore degli Anelli, è dentro al testo ma in forma nascosta, negata, celata. In questo senso si giustificano le ostinate negazioni di alcuni chiari riferimenti all'esperienza della Seconda Guerra mondiale e l'antipatia di Tolkien per alcuni aspetti di Dante, tra cui l'ingerenza della politica nella
Divina Commedia. A ciò si lega naturalmente un altro elemento fondante della creazione tolkieniana, ovvero il
rifiuto dell'ideologia, la convinzione che essa non abbia nulla a che vedere con l'arte e, anzi, sia elemento ad essa nocivo.
Continuando la carrellata di elementi accomunanti il professore di Oxford al modernismo, compaiono il
rifiuto delle macchine e della bruttezza del mondo contemporaneo, che quasi lo accomunano al pur diversissimo
D.H. Lawrence; l'
esperienza della guerra (si vedano nuovamente
T.S. Elliot e la
Mrs Dalloway di
Virginia Woolf); il
rifiuto dell'eroe romantico e l'affermazione di un anti-eroe che fallisce, un eroe posto di fronte a compiti troppo grandi (discorso valido sia su Frodo che, in certa misura, su Aragorn che non viene mai descritto di fronte alla sua più grande prova, quella del governo); la
metanarrazione, la riflessione sulle modalità del narrare, attraverso espedienti come l'introduzione di libri nel libro, la questione del Libro Rosso, le riflessioni di Sam e Frodo sul loro ruolo all'interno delle storie e delle leggende (passo che rende Tolkien quasi post-moderno). Mi piacerebbe soffermarmi sul p0erché secondo me (e non solo) Tolkien è invece un tardo-romantico, ma si sono fatte le 5.30 del mattino e forse non è il momento adatto.
10 e lode con standing ovation.La fierucolaMercatino filologicamente impeccabile e profondamente legato al territorio, curato dalla sapiente mano di Sandra e Stefano Giusti, la "fierucola" si è collocata ben oltre la solita carrelata di artigiani più o meno mal assortiti e di valore più o meno eterogeneo. Tutto era da ammirare e da acquistare, dagli splendidi
fischietti alle
ceramiche dei Giusti e di Gioia Bernalotti, dalle creazioni di Claudio Facchini del
Vetro Magico ai deliziosi
giocattoli in legno e stoffa, dai prodotti enogastronomici alle creazioni di cera e
miele, dalle
spezie ai
bottoni, dalle creazioni a base di
terracotta ed elementi vegetali ai gioielli in ceramica, dagli
abiti tessuti e cuciti a mano alla
carta. Una sarabanda di splendidi sapori ed affascinanti profumi. Uniche pecche: un banco di segreteria vuoto ed il banco STI completamente fuori luogo nel contesto. Alle volte, per fare i propri interessi, bisogna avere il coragio di prendere una posizione che apparentemente va contro a questi stessi interessi. Concetto che sembra difficile da assimilare.
L'esposizione di illustrazioni e ceramicaNon ho i miei appunti quindi non posso entrare nel dettaglio oggi: ci tornerò domani. Per ora mi limito ad un plauso alle stupende opere in
ceramica, alle deliziose
fotografie, al maturo (e mututato dal progetto bolgerico di lettura critica su Barbalbero, cosa della quale andiamo molto fieri)
progetto didattico con le scuole, fino agli
arazzi d'oltreoceano. Un
allestimento moderno, accurato e ben congegnato, intriso del gusto, dell'esperienza e dell'acume di Sandra e Stefano.
Del tutto fuori luogo ahimé gli "arazzi" di
Maura Boldi, imposti d'ufficio seppur fuori tema e depauperanti l'esposizione, oltre che depauperati essi stessi del loro valore per l'ossessiva riproposizione in ogni forma e salsa. L'avvilente approccio di alcune alte sfere STI alle manifestazioni si presenta qui in tutto il suo desolante splendore, come se la pòresenza costante dei "fidati" fosse garanzia di qualità e non, al contrario, una formula ormai logora e da superare. Lodevole l'organizzazione di questa manifestazione, che l'ha superato con straordinario successo. Detestabili i tentativi, a volte andati a segno come in questo caso, di mettere la zavorra al talento, alla competenza, all'entusiasmo e alle idee degli straordinari Soffiatromba. In quest'ottica, e riponendo nel gruppo bassanese la stessa fiducia che nutrivo nei Soffiatromba, sono profondamente curiosa riguardo alla qualità della prossima
Hobbiton.
Più o meno è tutto,
question-time e mostra a parte. Ci tornerò presto, promesso. Ho sorvolato sulla dimostrazione di
tiro con l'arco (divertente ma fuori dai miei interessi), l'esibizione di
volteggio a cavallo che non abbiamo visto, sul concerto di un nuovo grupo musicale chiamato
Lingalad e sulla
maratona cinematografica notturna cui si è sottoposto l'indomito Fritz con un manipolo di prodi (p minuscola), sulla visita all'arboreto che purtroppo abbiamo perso e su alcune divertenti note di colore (
i.e.: i pantaloncini di una leggiadra franciulla tolkieniana, che per pòarafrasare Shakespeare nascondevano il meglio e mostravano il peggio al cielo, lo stato di arretratezza del borgo che ancora ignora l'esistenza di una cosa chiamata bancomat). Se interessa qualcosa in particolare, chiedeteb pure e - se me lo ricordo - integrerò.
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